L’UNIVERSO DI GALILEO GALILEI
di Oriano Spazzoli

«Io Galileo, figlio del q.Vinc.Galilei di Fiorenza, dell’età mia di 70 anni, constituto personalmente in giuditio et inginocchiato avanti di voi Emin.mi et Rev.mi Cardinali in tutta la Repubblica Christiana contro l’eretica pravità generali inquisitori, avendo davanti gli occhi miei sacrosanti Vangeli, quali tocco con le mie proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica et insegna la Santa Cattolica et Apostolica Chiesa. Ma perchè da questo S.Offizio, per haver io, dopo essermi stato con precetto dell’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo e che non si muova, e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto la detta dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata et apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportare alcuna soluzione, sono stato giudicato vehementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo et immobile e che la terra non sia centro e che si muova; pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V. e d’ogni fedel Christiano questa vehemente sospitione, giustamente di me concepita, con cuor sincero e fede non finta, abiuro, maledico e detestoli suddetti errori et eresie...».

Con queste parole, pronunciate solennemente a Roma, nel convento di Santa Maria sopra Minerva il 22 Giugno dell’anno 1633 di fronte al Tribunale del Sant’Uffizio, Galileo Galilei si salvò dalla condanna a morte per eresia; la sua colpa era dunque, secondo anche quanto afferma il testo dell’abiura, di aver sostenuto, «apportando ragioni con molta efficacia», che la terra fosse in movimento nell’universo conformemente all’ipotesi eliocentrica di Niccolò Copernico.

Tuttavia il “De Rivolutionibus Orbium Coelestium”, “manifesto” del modello eliocentrico copernicano, era stato pubblicato già da un secolo (nel 1540), e, non soltanto non era mai stata rivolta alcuna accusa di eresia né a Copernico né ad altri sostenitori della sua teoria, ma lo stesso testo non aveva ancora conosciuto l’onta dell’“Indice” dei libri proibiti dalla Chiesa.

Perché allora Essa si accanisce a tal punto contro Galileo, uomo devoto e da sempre animato da fede salda e profonda, per di più ormai vecchio, stanco e malato (morirà nove anni più tardi quasi completamente cieco)?

Perché solo allora la Chiesa comincia ad avere così paura dei calcoli e delle intuizioni geometriche di Copernico e a vedere in esse un duro attacco alla “Legge Divina” sancita dai testi sacri?

La risposta è assai ampia e articolata ed è contenuta in quel tormentato percorso fatto di osservazioni, ipotesi, profonde riflessioni, dimostrazioni matematiche e logiche, e diatribe animate da uno spirito polemico talvolta aspro e spietato nei confronti dell’ottusità. Ma ancor di più essa si coglie nel senso profondo che Galileo seppe dare al suo lavoro, fin da quando, abbandonati gli studi di Medicina e intrapresi quelli di Matematica nel 1583 (all’età di 19 anni) si accostò ad essa non come ad un gioco astratto di ipotesi e deduzioni, bensì come ad un atto fondamentale nel processo conoscitivo dell’universo e dei suoi principi fisici, quei principi che erano prigionieri della filosofia naturale aristotelica “congelata” ormai da secoli di tortuose speculazioni filosofiche e teologiche, e i cui spietati carcerieri erano i filosofi naturalisti, gretti e potenti depositari del “vero” sapere scientifico. Ecco dunque che le idee di Galileo fondate sull’esperienza e sull’analisi razionale, liberate dai vincoli della tradizione, cominciarono a spaventare i dotti sostenitori della scienza “ufficiale” nonché i vertici dell’autorità ecclesiastica che nella tradizione affondavano le radici del loro potere.

Tutti i principi fondamentali della fisica aristotelica confluivano nell’ipotesi dell’immobilità e della centralità della terra nell’universo ed altro non poteva essere dal momento che nella stessa Bibbia, Giosuè per prolungare e condurre a buon fine l’assedio di Gabaon, aveva gridato «Fermati o Sole!»; la Bibbia non poteva dire il falso!

Il Sole doveva dunque essere un astro “errante”, in movimento intorno alla terra fissa. Inoltre non c’erano prove a sostegno di un ipotetico moto della terra; non si poteva osservare alcun forte vento costante nel verso della rotazione della terra che impedisse agli uccelli di volare in senso inverso, né si era mai misurato uno spostamento di un oggetto in caduta in verso opposto alla rotazione terrestre (come si attendeva Aristotele che non conosceva il principio di inerzia e la legge della composizione dei moti). Galileo, tormentato e affascinato dal problema dei “moti naturali”, (come Aristotele aveva definito i moti causati dall’inclinazione naturale dei corpi) e dai principi naturali che li governano, fu spinto proprio dallo studio di questi temi verso la teoria copernicana; e ciò perché, se è vero che un corpo tende a mantenere il proprio moto (principio della conservazione del moto, antesignano del principio di inerzia) è altrettanto vero che un sasso lasciato cadere dall’albero maestro di una nave in movimento a velocità costante cadrà verticalmente lungo l’albero stesso, in quanto oltre a cadere verso il centro della terra, manterrà inalterato il moto orizzontale impressogli dalla nave. Pertanto, se sulla nave in moto a velocità costante non è possibile riconoscere dalla caduta di un grave se essa sia o meno in moto, così sarà per la terra (Galileo lo dimostrò attraverso le parole del personaggio di Salviati nel “Dialogo sopra i due Massimi Sistemi del Mondo”). Allo stesso modo, l’interpretazione galileiana delle maree, attribuite non già alla gravità, di cui Galileo ammetteva di non conoscere l’essenza, ma alla disuniformità del moto della terra che avrebbe spinto l’acqua del mare contro le coste o lontano da esse, come alla partenza brusca di una carrozza il passeggero rivolto verso il cocchiere si sente spinto contro il sedile mentre quello dalla parte opposta viene sbalzato in avanti.

 

L’Astronomia galileiana

L’astronomia di Galileo non è più soltanto osservazione e costruzione matematica fatta al solo scopo di prevedere correttamente le posizioni degli astri erranti, come si era considerata fino ad allora, ma un passo decisivo verso la conoscenza della struttura e della vera essenza dell’universo.

Quando nel 1609 Galileo apprese dall’amico Paolo Sarpi a Venezia che un ottico olandese aveva costruito uno strumento ottico che consentiva di vedere ravvicinati gli oggetti osservati (una conferma di ciò gli venne anche da una lettera del nobile parigino Jacques Badovère), egli cominciò a lavorare giorno e notte, applicando le sue conoscenze di ottica della rifrazione, per ottenere la soluzione migliore realizzabile a tale scopo con un tubo di piombo e due lenti da collocare alle estremità.

La trovò in soli 5 giorni: «Preparai dapprima un tubo di piombo alle cui estremità applicai due lenti entrambe piane da una parte, e dall’altra una convessa e una concava; posto l’occhio dalla parte concava vidi gli oggetti abbastanza grandi e vicini, tre volte più vicini e nove volte più grandi di come non si vedano ad occhio nudo. In seguito preparai uno strumento più esatto, che mostrava gli oggetti più di sessanta volte maggiori. E finalmente non risparmiando fatiche e spese, venni a tanto da costruirmi uno strumento così eccellente, che gli oggetti visti per il suo mezzo appaiono ingranditi di quasi mille volte e trenta volte più vicini che visti a occhio nudo.» (Galileo Galilei: “Sidereus Nuncius”, Padova 1610), come Galileo scrisse nel primo ampio resoconto delle sue osservazioni astronomiche, il “Sidereus Nuncius”, o Avviso astronomico, pubblicato il 12 Marzo del 1610, anno del suo trasferimento da Padova (dove aveva lavorato come titolare della cattedra universitaria di Matematica dal 1592) a Firenze presso la corte del granduca Cosimo II de' Medici.

 

La Luna

«In primo luogo diremo dell’emisfero della Luna che è volto verso di noi. Per la maggior chiarezza divido l’emisfero in due parti, più chiara l’una, più scura l’altra: la più chiara sembra circondare e riempire tutto l’emisfero, la più scura invece offusca come nube la faccia stessa e la fa apparire cosparsa di macchie. Queste macchie alquanto scure e abbastanza ampie, ad ognuno visibili, furono scorte in ogni tempo; e perciò le chiameremo grandi o antiche, a differenza di altre macchie minori per ampiezza ma pure così frequenti da coprire l’intera superficie del disco lunare, soprattutto la parte più luminosa: e queste non furono viste da altri prima che da noi.»
In ciò Galileo si riferisce naturalmente ai “mari” (le macchie più grandi), visibili ad occhio nudo, e ai crateri lunari, osservabili soltanto con uno strumento ottico.

«Da osservazioni più volte ripetute di tali macchie fummo tratti alla convinzione che la superficie della Luna non è levigata, uniforme ed esattamente sferica, come gran numero di filosofi credette di essa e degli altri corpi celesti, ma ineguale, scabra e con molte cavità e sporgenze, non diversamente dalla faccia della Terra, variata da catene di monti e profonde valli.» In particolare Galileo poté osservare per la prima volta, pochi giorni dopo la fase di luna nuova, che la linea di divisione tra luce e ombra non aveva curvatura regolare, ma appariva frastagliata e irregolare, e che la parte chiara della falce lunare mostrava piccole macchie nere e picchi luminosi, le prime rivolte dalla parte del sole, proprio come sulla Terra al mattino le valli sono ancora in ombra mentre i picchi retrostanti vengono già illuminati dalla luce del sole. Così quelle strette valli, come le creste circolari di profondi crateri («Questa superficie lunare, laddove è variata da macchie, come occhi cerulei d’una coda di pavone, appare simile a quei vasetti di vetro che, posti ancora incandescenti in acqua fredda, acquistan superficie screpolata e ineguale, onde son detti dal volgo bicchieri di ghiaccio») e le distese più scure e prive di asperità, il cui aspetto e la cui vastità fece attribuire loro il nome di “mari”, mostrarono che la luna non era una sfera perfetta e di natura eterea e divina, come ogni corpo celeste secondo l’idea della scienza ufficiale, ma un corpo solido con una crosta rocciosa a tratti increspata come quella della terra nelle sue più aspre ed impervie catene montuose.

Galileo poi nota che i mari in realtà non mutano di luminosità con l’inclinazione dei raggi del Sole, come ci si dovrebbe attendere se essi fossero oceani liquidi, e ancora si preoccupa di spiegare il motivo della iniziale suddivisione del disco lunare in due parti, che fa apparire la luna priva di macchie al bordo, come se le asperità venissero meno in quella parte: «In primo luogo se le protuberanze e le cavità del corpo lunare si estendessero solo secondo la circonferenza terminale dell’emisfero a noi visibile, allora la luna potrebbe, anzi dovrebbe mostrarsi a noi quasi simile ad una ruota dentata, col contorno ricco di bozze e sinuoso: però se non una sola catena di monti... ma molte file di monti con loro valli e anfratti si trovano disposti parallelamente attorno alla periferia della luna, e non solo nell’emisfero visibile ma anche in quello invisibile...allora un occhio che guardi da lontano non potrà distinguere il distacco tra le parti elevate e le cavità, perché i monti disposti nello stesso cerchio...sono nascosti da altri monti disposti in altre e altre file....», in secondo luogo, ammettendo che la luna fosse ricoperta di vapori, poiché la luce ne attraverserebbe un maggior spessore proprio in direzione del bordo, sarebbero indistinguibili i suoi particolari.

 

La “luce cinerea”

La Luna, pochi giorni dopo la fase di luna nuova appare come una stretta falce; tuttavia allora si può notare che anche la sua parte oscura appare debolmente illuminata di una luce bianco-azzurrognola (“cinerea”) che sfuma verso il primo quarto fino a scomparire del tutto nelle fasi superiori. Galileo afferma che tale luce non può venire dal Sole, che si trova allora dalla parte opposta della Terra, né dalle stelle, in quanto in tal caso sarebbe visibile costantemente e non soltanto in un breve periodo del ciclo lunare, né da Venere (il terzo astro più luminoso del cielo) poiché non c’è alcun motivo perché Venere venga a trovarsi opposta al Sole rispetto alla Luna in modo da illuminarne la parte oscura con periodo uguale a quello del ciclo lunare. Dunque responsabile di tale luce non può essere che la Terra, che in prossimità della luna nuova apparirebbe ad un osservatore sulla superficie lunare stessa, come un grande disco azzurro quasi completamente illuminato «Ecco: giustamente la Terra, grata, rende alla Luna luce pari a quella che essa stessa dalla Luna riceve per quasi tutto il tempo nelle tenebre più profonde della notte».

 

Stelle e pianeti

«Degna di nota sembra anche la differenza tra l’aspetto dei pianeti e quello delle stelle fisse. i pianeti presentano i loro globi esattamente rotondi e definiti e, come piccole lune luminose perfuse ovunque di luce, appaiono circolari: le stelle fisse non si vedono mai terminate da un contorno circolare, ma come fulgori vibranti tutt’attorno i loro raggi...».

 

Stelle non visibili ad occhio nudo e Via Lattea

«Ma oltre alle stelle di sesta grandezza si vedrà col cannocchiale un così gran numero di altre, invisibili alla vista naturale, che appena è credibile: se ne possono vedere infatti più di quante ne comprendano le altre sei diverse grandezze...» Un nuovo meraviglioso universo si schiude di fronte all’uomo; cambia la geografia del cielo, le configurazioni di stelle classificate dagli antichi come costellazioni e divenute familiari, divengono distese informi di polvere d’oro e d’argento.

Quando Galileo prova a riprodurre con un disegno la costellazione di Orione, si trova a disagio a causa del grande numero di stelle da raffigurare: «ve ne sono infatti disseminate intorno a quelle già note, entro i limiti di uno o due gradi, più di cinquecento...».

Riesce a rappresentare più facilmente l’ammasso delle Pleiadi, di cui sono osservabili al massimo sette stelle ad occhio nudo, in condizioni ideali; Galileo con il cannocchiale ne osservò ben trentasei.

«Quello che in terzo luogo osservammo, è l’essenza o materia della via Lattea, la quale attraverso il cannocchiale si può vedere così chiaramente che tutte le discussioni per tanti secoli cruccio dei filosofi, si dissipano con la certezza della sensata esperienza, e noi siamo liberati da sterili dispute. La Galassia infatti non è altro che un ammasso di innumerabili stelle disseminate a mucchi, che in qualunque parte di essa si diriga il cannocchiale, si offre subito alla vista un grandissimo numero di stelle, parecchie delle quali si vedono grandi e ben distinte, mentre la moltitudine delle piccole è affatto inesplorabile.» Queste parole sono la sintetica testimonianza del primo atto dell’esplorazione della nostra Galassia.

Il cannocchiale poi contribuisce a riconoscere come gruppi o “ammassi” si stelle, oggetti precedentemente classificati come “nebulose”, come ad esempio l’ammasso aperto del “Presepe” nella costellazione del Cancro (tipica del cielo invernale e primaverile).

Ciò di cui ancora Galileo non sembrava rendersi conto, o che forse non ammetteva per cautela, è che ormai l’uomo poteva spingere l’occhio verso l’infinito, “frantumando” una volta per tutte l’involucro che da sempre si riteneva racchiudesse l’universo.

 

Satelliti di Giove e fasi di Venere

«Il giorno 7 Gennaio, dunque dell’anno 1610, a un’ora della notte, mentre con il cannocchiale osservavo gli astri mi si presentò Giove. Poiché mi ero preparato uno strumento eccellente, vidi (e ciò prima non mi era mai accaduto per la debolezza dell’altro) che intorno gli stavano tre stelle piccole ma luminosissime; e quantunque le credessi del numero delle fisse, mi destarono una certa meraviglia, perché apparivano disposte esattamente secondo una linea retta e parallela all’eclittica e più splendenti di altre di grandezza uguale a loro...», lo “strumento eccellente” era il cannocchiale da 30 ingrandimenti citato all’inizio del “Sidereus Nuncius”; con esso Galileo cominciò ad osservare assiduamente, ogni notte serena quelle stelline (alle quali si aggiunse presto una quarta). Esse gli parvero oscillare intorno a Giove proprio come piccole lune orbitanti intorno al pianeta, osservate dal piano stesso dell’orbita.

Compreso che si trattava di satelliti di Giove (la loro scoperta fu dedicata a Cosimo II de' Medici ed i nuovi astri furono denominati pianeti Medicei mentre a ciascuno di essi separatamente fu assegnato un nome derivato dalla mitologia classica: dall’interno Io, Europa, Ganimede, Callisto), il problema era distinguerli ad ogni osservazione per poter determinare i loro periodi orbitali e le caratteristiche del loro moto in modo da prevederne correttamente le posizioni con il calcolo. Galileo vi riuscì dopo alcuni anni di osservazione, a prezzo della sua stessa salute, ma per realizzare tale scopo dovette tener conto dell’influenza decisiva del moto della terra intorno al Sole. Tra tutte le osservazioni astronomiche e le deduzioni più o meno dirette da esse, fu quest’ultima a spingere Galileo irreversibilmente verso il modello eliocentrico copernicano.

Tale prova risultò più decisiva dell’osservazione delle fasi di Venere (fatta sul finire del 1610 e non documentata nel Sidereus Nuncius, ma inizialmente in un carteggio tenuto dallo stesso Galileo con Giovanni Keplero): infatti esse, dovute come le fasi della luna alle diverse condizioni di illuminazione di Venere da parte del Sole che cambiano considerevolmente perché Venere ruota intorno al Sole in un’orbita interna a quella della Terra, potevano all’epoca essere spiegate anche accettando il sistema cosmologico di Tycho Brahe (una specie di compromesso tra geocentrismo e eliocentrismo, nel quale la Terra era immobile, ma Venere e Mercurio venivano fatti ruotare intorno al Sole per spiegare le loro forti variazioni di luminosità). Di fronte alle gravi e complesse problematiche sollevate da tali scoperte, diviene soltanto un dettaglio curioso ma privo di importanza, l’osservazione pur notevole della forma allungata di Saturno, prodotta da quelli che sarebbero successivamente stati individuati come i suoi anelli.

Conclusione. Per un po' la Chiesa plaudì a Galileo, studioso profondamente religioso e stimato dall’autorità ecclesiastica, ma quando divenne sempre più evidente che il suo lavoro non era soltanto un esercizio di calcoli e dimostrazioni ma lo spirito che lo animava era rivolto alla ricerca della verità, la spinta rivoluzionaria delle sue idee divenne insostenibile per chi voleva ancorare la scienza a comode e grossolane certezze, e al tempo stesso per chi voleva vincolare il mondo ad antichi princìpi che, al di là delle strutture tortuose che si costruivano su di essi, giustificavano privilegi e potere.

Ma quella condanna e quella dolorosa abiura furono presto cancellate dalla storia.

 

Bibliografia:

Stillman Drake: Galileo Galilei pioniere della scienza, Ed. Muzzio.

Galileo Galilei: Dialogo dei massimi sistemi, Ed. Mondadori.

 

Monografia n.17-1997/11


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