PALOMAR GUARDA IL CIELO
di Oriano Spazzoli


“Hevelius e il suo telescopio”, XVII secolo

 

La prima idea era stata di fare due personaggi: il signor Palomar e il signor Mohole. Il nome del primo viene da Mount Palomar, il famoso osservatorio astronomico californiano. Il nome del secondo è quello di un progetto di trivellazione della crosta terrestre che se venisse realizzato porterebbe a profondità mai raggiunte nelle viscere della terra. I due personaggi avrebbero dovuto tendere, Palomar verso l’alto, il fuori, i multiformi aspetti dell’universo, Mohole verso il basso, l’oscuro, gli abissi interiori. Mi proponevo di scrivere dei dialoghi basati sul contrasto tra i due personaggi, uno che vede i fatti minimi della vita quotidiana in una prospettiva cosmica, l’altro che si preoccupa solo di scoprire cosa c’è sotto e dice solo verità sgradevoli...
Solo alla fine ho capito che di Mohole non c’era alcun bisogno perché Palomar era anche Mohole: la parte di sé oscura e disincantata che questo personaggio generalmente ben disposto si portava dentro non aveva alcun bisogno di essere esteriorizzata in un personaggio a sé...
Rileggendo il tutto, m’accorgo che la storia di Palomar si può riassumere in due frasi: “Un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato”

(Italo Calvino 1983)

 

Italo Calvino fu senz’altro uno scrittore atipico, in particolare per il rilievo che la sua esperienza culturale e umana lo portarono ad attribuire alla conoscenza scientifica. Del resto il padre fu uno studioso di scienze agrarie (diresse varie scuole e istituti di ricerca) e la madre fu assistente di botanica all’Università di Pavia, gli zii furono chimici («...ho avuto due zii chimici sposati a due zie chimiche») ed il fratello minore Floriano divenne geologo di fama internazionale e docente all’università di Genova; «...io sono la pecora nera, l’unico letterato della famiglia» ricordava Calvino con bonaria ironia; e lo stesso Calvino aveva tentato inizialmente di seguire le orme del padre intraprendendo gli studi di Agraria prima all’Università di Torino poi a Firenze. Poi però, per vari motivi (difficoltà di adattamento alla vita nella grande città, per lui che era sanremese, poi la guerra, le sue amicizie e la sua progressiva adesione al movimento partigiano) si convertì agli studi letterari e soprattutto si dedicò all’attività che lo rese celebre: scrivere.

Resta però un’impronta nel suo lavoro, nei temi che tratta, nella costruzione delle sue storie, nei riferimenti culturali, a ricordarci come l’attività di scrittore sia fondata anch’essa su di una metodologia di indagine di tipo scientifico, che ha nell’esperienza il suo punto di partenza e che prosegue con l’elaborazione di una struttura di pensiero, quello che per un ricercatore è una teoria e per uno scrittore è uno schema narrativo. Talvolta la costruzione di un romanzo può somigliare al lavoro di un fisico teorico che sottopone un sistema dalle condizioni iniziali note ad una perturbazione e studia l’evoluzione di quest’ultima sulla base delle leggi fisiche del sistema stesso; così i personaggi della narrazione si inquadrano in un contesto storico e sociale e lo scrittore si diverte a veder evolvere gli uni e l’altro sulla base delle leggi (magari molto meno schematiche e molto più discutibili) che regolano le loro mutue interazioni.

L’opera di Italo Calvino che abbiamo scelto di commentare è una breve sequenza di racconti pubblicati sul Corriere della Sera agli inizi degli anni ’80 e raccolti in un libro che prende il titolo dal nome del loro unico protagonista “Palomar” (le citazioni iniziali sono state tratte da una presentazione scritta dallo stesso Calvino per rispondere ad un’inchiesta del New York Times Book Review sul libro che scrittori di tutto il mondo stavano scrivendo, ma della quale sulla rivista apparvero poi poche righe riguardanti unicamente Palomar). In esso l’esperienza da cui lo scrittore parte per la costruzione della narrazione è l’osservazione, e Italo Calvino è osservatore attento ed acuto, sensibile ad una natura ricca e mutevole; e ciò si coglie dalla sua dichiarata forte passione per quello che egli definisce non senza una punta di amarezza «un esercizio letterario caduto in disuso e considerato inutile: la descrizione».

 

Il personaggio di Palomar, un uomo abbastanza comune, con una moglie, una figlia, una casa con un giardino, forse un cane e un gatto, non ha una caratterizzazione ben precisa, non ha competenze particolari, né spiccate qualità di un certo tipo, all’infuori di una grande motivazione all’osservazione di tutto ciò che lo circonda, la motivazione che ha colui che ritiene di poter trarre dall’osservazione una chiave di lettura dell’universo.

Allora è un ambizioso e un presuntuoso?

Niente di tutto questo; Palomar osserva e problematizza continuamente per ricavare dall’osservazione i dettagli significativi, per costruire uno schema interpretativo della realtà che a sua volta diventa una sorgente inesauribile di problemi. Egli non cerca di fare niente altro che ciò che ha fatto l’uomo nel procedere, passo dopo passo, alla costruzione della conoscenza del mondo, e l’ambizioso fine di Palomar è in realtà il fine dell’uomo: la saggezza.

Al cammino dell’uomo verso la conoscenza Calvino si riferisce fin dalla prima descrizione delle osservazioni di Palomar: la “lettura di un’onda”.

 

Lettura di un’onda

«Il signor Palomar è in piedi sulla riva e guarda un’onda. Non che egli sia assorto nella contemplazione delle onde. Non è assorto, perché sa bene quello che fa: vuole guardare un’onda e la guarda. Non sta contemplando, perché per la contemplazione ci vuole un temperamento adatto, uno stato d’animo adatto e un concorso di circostanze esterne adatto: e per quanto il signor Palomar non abbia nulla contro la contemplazione in linea di principio, tuttavia nessuna di quelle tre condizioni si verifica per lui. Infine non sono le onde che lui intende guardare, ma un’onda singola e basta: volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso.»

Quello che Palomar fa è osservare e basta; la sua è un’osservazione scevra del coinvolgimento emotivo che costituisce parte integrante dell’atto contemplativo, un’osservazione che deve avere un obiettivo significativo e non deve disperdersi nelle sensazioni vaghe. Per questo egli sceglie di osservare una sola onda alla volta allo scopo di astrarre gli elementi distintivi propri del fenomeno; ma si rende ben presto conto che isolare una sola onda non è affatto facile, perché «...non si può osservare un’onda senza tener conto degli aspetti complessi che concorrono a formarla e di quelli altrettanto complessi a cui essa da luogo.» Allora cerca di individuare nel succedersi delle onde «delle forme e sequenze che si ripetono, sia pur distribuite irregolarmente nello spazio e nel tempo», il modo migliore per fare questo è soffermare lo sguardo su di un punto, e in particolare «sul movimento dell’acqua che batte sulla riva finché non potrà registrare aspetti che non aveva colto prima; appena si accorgerà che le immagini si ripetono saprà di aver visto tutto quel che voleva vedere e potrà smettere». Questa è a tutti gli effetti un’applicazione del metodo sperimentale; dal particolare, complesso e irregolare, si deve astrarre uno schema generale semplice. Così operava Galileo quando mirava ad esprimere le leggi della natura in forma matematica.

Ma nella dettagliata descrizione del complesso succedersi delle onde sulla battigia prendendo a modello il disegno delle onde la spiaggia inoltra nell’acqua punte appena accennate che si prolungano in banchi di sabbia sommersi, come le correnti ne formano e disfano a ogni marea... ma ogni tentativo di definire questo modello deve fare i conti con un’onda lunga che sopravviene in direzione perpendicolare ai frangenti e parallela alla costa, facendo scorrere una cresta continua e appena affiorante... Adesso in questo incrociarsi di creste variamente orientate il disegno complessivo risulta frammentato in riquadri che affiorano e svaniscono.») e dei sempre più goffi tentativi di Palomar di razionalizzare la sua metodologia di osservazione si coglie sempre più una venatura di ironia sul riduzionismo, come in generale sull’ostinazione a ritenere semplicemente schematizzabile una natura intrinsecamente complessa («Forse il vero risultato a cui il signor Palomar sta per giungere è di far correre le onde in verso opposto, di capovolgere il tempo, di scorgere la vera sostanza del mondo al di là delle abitudini sensoriali e mentali? No, egli arriva fino a provare un leggero capogiro e non oltre. L’ostinazione che spinge le onde verso la costa ha partita vinta: di fatto si sono parecchio ingrossate. Che il vento stia per cambiare? Guai se l’immagine che il signor Palomar è riuscito minuziosamente a mettere insieme si sconvolge e frantuma e disperde.
Solo se egli riesce a tenerne presenti tutti gli aspetti insieme, può iniziare la seconda fase dell’operazione: estendere questa conoscenza all’intero universo. Basterebbe non perdere la pazienza, cosa che non tarda ad avvenire. Il signor Palomar s’allontana lungo la spiaggia, coi nervi tesi com’era arrivato e ancor più insicuro di tutto
.»)

 

Il prato infinito

Il signor Palomar, come si è detto, ha una casa, come tutti noi del resto, e questa casa è circondata da un prato, un bel prato curato, artificiale e naturale insieme, naturale perché costituito di un elemento naturale, l’erba (dicondra, loglietto e trifoglio), artificiale perché elemento aggiunto al paesaggio, del quale non farebbe naturalmente parte. Poiché i diversi tipi di erba crescono a ritmi diversi, è necessario, per mantenere omogeneamente a uno stesso livello le sue componenti, tagliarlo periodicamente. Ma il taglio scopre qua e là irregolarità, quali aree spelacchiate o macchie gialle o ancora una concentrazione anomala di erbacce. Impegnato nel suo lavoro di cura del prato, che svolge periodicamente, mentre estirpa le erbacce il signor Palomar pensa che il modo più efficace di procedere non possa prescindere dalla conoscenza approfondita del prato stesso.

Il prato è una realtà complessa, costituita di tanti enti elementari, i fili d’erba, variamente distribuiti e ognuno con caratteristiche proprie; la conoscenza del prato non può essere conoscenza di tutti fili d’erba, ma deve necessariamente essere il risultato di un metodo di indagine più raffinato ed economico. In particolare Palomar pensa a due modi distinti:

Nei pensieri di Palomar, intento ad un’attività ordinaria come la pulizia del prato, dunque si prospettano due diverse metodologie di ricerca: l’indagine statistica per astrarre da uno scenario particolare un quadro generale della realtà, e la riflessione sulla visione sintetica d’assieme di un universo classificato e organizzato in parti interrelate tra loro.

«Palomar è già passato ad un altro ordine di pensieri: è il prato quello che noi vediamo oppure vediamo un’erba più un’erba più un’erba...? Quello che noi diciamo “vedere il prato” è solo un effetto dei nostri sensi approssimativi e grossolani; un insieme esiste solo in quanto formato da elementi distinti. Non è il caso di contarli, il numero non importa; quel che importa è afferrare in un solo colpo d’occhio le singole pianticelle una per una, nelle loro particolari differenze. E non solamente vederle: pensarle. Invece di pensare il prato. Pensare quel gambo con due foglie di trifoglio, quella foglia lanceolata un po’ ingobbita, quel corimbo sottile...»

Conoscere l’universo (perché in realtà è all’universo che la storia si riferisce) è conoscerne gli elementi strutturali: le galassie “tipiche” per studiarne il movimento globale, le particelle elementari e le loro interazioni per capirne la struttura su tutte le scale di grandezze.

«Palomar s’è distratto, non strappa più le erbacce, non pensa più al prato: pensa all’universo. Sta provando ad applicare all’universo tutto quello che ha pensato del prato. L’universo come cosmo regolare o come proliferazione caotica. L’universo, insieme di corpi celesti, nebulose, pulviscolo, campi di forze, intersezioni di campi, insiemi di insiemi...»

 

Palomar guarda il cielo: la Luna.

La pallida immagine della Luna che affiora appena nell’azzurro intenso del cielo pomeridiano si ravviva a poco a poco al calare del Sole. Quella che descrive Calvino è una Luna quasi piena che si vede sorgere verso oriente nel tardo pomeriggio ed il cui lento levarsi accompagna l’approssimarsi del Sole al tramonto.

La Luna nel pomeriggio è ancora «... così fragile e pallida e sottile; solo da una parte comincia ad acquistare un contorno netto come un arco di falce, e il resto è ancora imbevuto di celeste. È come un’ostia trasparente, o una pastiglia mezzo dissolta; solo che qui il cerchio bianco non si sta disfacendo ma condensando, aggregandosi a spese delle macchie e ombre grigiazzurre che non si capisce se appartengano alla geografia lunare o siano sbavature del cielo che ancora intridono il satellite poroso come una spugna. In questa fase il cielo è ancora qualcosa di molto compatto e concreto e non si può essere sicuri se è dalla sua superficie tesa e ininterrotta che si sta staccando quella forma rotonda e biancheggiante, d’una consistenza appena più solida delle nuvole, o se al contrario si tratta di una corrosione del tessuto di fondo, una smagliatura della cupola, una breccia che si apre sul nulla retrostante.»

Ma la luce del cielo al tramontare del Sole diviene sempre meno intensa, facendo assumere al cielo stesso sfumature cromatiche diverse («l’azzurro del cielo ha virato successivamente verso il pervinca, verso il viola (i raggi del Sole sono diventati rossi), poi verso il cenerognolo e il bigio,...») e rendendo sempre più nitido e luminoso il disco lunare («... e ogni volta il biancore della Luna ha ricevuto una spinta a venire fuori più deciso, e al suo interno la parte più luminosa ha guadagnato estensione fino a coprire tutto il disco. È come se le fasi che la Luna attraversa in un mese fossero ripercorse all’interno di questa luna piena o luna gobba, nelle ore tra il suo sorgere e il suo tramontare, con la differenza che la forma rotonda resta più o meno tutta in vista. In mezzo al cerchio le macchie ci sono sempre, anzi i chiaroscuri si fanno più contrastati per rapporto alla luminosità del resto, ma ora non c’è dubbio che è la Luna che se li porta addosso come lividi o ecchimosi, e non si può più crederli trasparenze del fondale celeste, strappi nel manto d’un fantasma di Luna senza corpo. Piuttosto ciò che ancora resta incerto è se questo guadagnare in evidenza e (diciamolo) splendore sia dovuto al lento arretrare del cielo che più s’allontana più sprofonda nell’oscurità, o se invece è la Luna che sta venendo avanti raccogliendo la luce prima dispersa intorno e privandone il cielo e concentrandola tutta nella tonda bocca del suo imbuto.»)

 

I pianeti al telescopio

Coerentemente con il suo nome, il signor Palomar prova grande interesse per l’astronomia. Non ha competenze particolari, però si informa con scrupolo su tutto ciò che riguarda la scienza del cielo.

La sua iniziativa di osservare i pianeti al telescopio (facendosi prestare un bel cannocchiale con un obbiettivo del diametro di 15 cm dai suoi amici astronomi) nasce infatti dal fatto che egli è venuto a conoscenza che nel mese di Aprile i tre pianeti esterni visibili ad occhio nudo, ovvero Marte, Giove e Saturno, sono e tre all’opposizione (cioè opposti al Sole nella volta celeste, in modo tale da poter risultare visibili ad est al tramonto del Sole, e di seguito per tutta la notte; un pianeta all’opposizione ha una distanza dalla Terra prossima a quella minima, e quindi ha una luminosità prossima alla massima: «Scendendo con lo sguardo, seguitando un arco immaginario che dovrebbe congiungere Regolo e Spica (ma Spica quasi non si vede), s’incontra ben distinto Saturno, dalla luce bianca e freddina, è più giù ancora ecco Giove, nel momento del suo massimo splendore, d’un giallo vigoroso che dà sul verde.»

La descrizione dei pianeti visti al telescopio è l’espressione del piacere dell’osservazione alla ricerca di particolari minimi assai difficili da vedere, nella quale la passione rafforza la pazienza, ma anche del fascino che desta la consapevolezza di osservare qualcosa che è tanto al di fuori della dimensione umana per tempo e distanza, dell’emozione che si prova nella coscienza di ripetere un’operazione storica che ha proiettato l’uomo per la prima volta oltre gli stretti confini del suo cielo primitivo, spingendo i suoi occhi fin nel cuore di un irraggiungibile “dominio divino”, e dell’attesa impaziente che spesso si prova nell’aspettativa esagerata dello svelamento di profondi misteri cosmici.

«...Per esempio, Marte si rivela al telescopio un pianeta più perplesso di quanto non sembri ad occhio nudo: pare abbia tante cose da comunicare di cui si riesce a mettere a fuoco solo una piccola parte, come in un discorso farfugliato e tossicchiante. Un alone scarlatto sporge intorno all’orlo; si può cercare di rincalzarlo regolando la vite, per far risaltare la crostina di ghiaccio del polo inferiore; macchie affiorano sulla superficie come nuvole o squarci fra le nuvole; ... Insomma gli pare che se Marte è un pianeta dal quale da Schiapparelli in poi se ne sono dette tante, causando alternative e delusioni, ciò coincida con la difficoltà di stabilire un rapporto con lui, come con una persona dal carattere difficile. (A meno che la difficoltà di carattere non sia tutta dalla parte di Palomar; invano egli cerca di sfuggire alla soggettività rifugiandosi tra i corpi celesti)».

«Tutto il contrario è il rapporto che egli stabilisce con Saturno, il pianeta che più dà emozione a chi lo guarda attraverso un telescopio: eccolo nitidissimo, bianchissimo, esatti i contorni della sfera e dell’anello; una leggera rigatura di paralleli zebra la sfera; una circonferenza più scura separa il bordo dell’anello; questo telescopio non capta quasi altri dettagli e accentua l’astrazione geometrica dell’oggetto; il senso di una lontananza estrema anziché attenuarsi risalta più che a occhio nudo. Che in cielo stia ruotando un oggetto così diverso da tutti gli altri, una forma che raggiunge il massimo di stranezza col massimo di semplicità e di regolarità e d’armonia, è un fatto che rallegra la vista e il pensiero. ‘Se avessero potuto vederlo come ora lo vedo io, - pensa il signor Palomar, - gli antichi avrebbero creduto d’aver spinto il loro sguardo nel cielo delle idee di Platone, o nello spazio immateriale dei postulati di Euclide; invece quest’immagine, per chissà quale disguido, arriva a me che temo che sia troppo bella per essere vera, troppo accetta al mio universo immaginario per appartenere al mondo reale. Ma forse è proprio questa diffidenza verso i nostri sensi che ci impedisce di sentirci a nostro agio nell’universo. Forse la prima regola che devo pormi è questa: attenermi a ciò che vedo.’»

Ecco, l’astronomia, scienza galileiana sopra tutte, costruita rigorosamente sull’osservazione, diventa un prezioso riferimento per l’uomo, una “cura” contro il senso smarrimento nell’infinità dell’universo.

Quindi Palomar passa ad osservare Giove: «nella sua mole maestosa ma non grave, Giove ostenta due strisce equatoriali come una sciarpa guarnita di ricami intrecciati, d’un verde cilestrino. Effetti di tempeste atmosferiche immani si traducono in un disegno ordinato e calmo, d’elaborata compostezza. Ma il vero sfarzo di questo pianeta lussuoso sono i suoi sfavillanti satelliti, ora in vista tutti e quattro lungo una linea obliqua, come uno scettro splendente di gioielli. Scoperti da Galileo e da lui chiamati ‘Medicea Sidera’, Astri dei Medici, ribattezzati poco dopo con nomi ovidiani - Io, Europa, Ganimede, Callisto - sembrano irradiare un ultimo bagliore di Rinascimento neoplatonico, come ignari che l’ordine delle sfere celesti si è dissolto, proprio per opera del loro scopritore. Un sogno di classicità avvolge Giove; fissandolo nel telescopio il signor Palomar resta in attesa di una trasfigurazione olimpica...La notte dopo, il signor Palomar torna sul suo terrazzo, a rivedere i pianeti ad occhio nudo: la grande differenza è che qui è obbligato a tener conto delle proporzioni tra il pianeta, il resto del firmamento sparso nello spazio buio da tutti i lati, e lui che guarda, cosa che non succede se il rapporto tra l’oggetto separato pianeta messo a fuoco dalla lente e lui soggetto, in un illusorio faccia a faccia. Nello stesso tempo egli ricorda di ciascun pianeta l’immagine dettagliata vista ieri sera, e cerca di inserirla in quella minuscola macchia di luce che perfora il cielo. Così spera di essersi appropriato veramente del pianeta, o almeno di quanto di un pianeta può entrare dentro un occhio.»

 

La contemplazione delle stelle

Nel suo ripercorrere le tappe dell’evoluzione del rapporto dell’uomo con il mondo esterno, Palomar sceglie di vivere un’esperienza che ritiene fondamentale: quella dell’osservazione del cielo stellato ad occhio nudo. Per Palomar essa comporta una lunga serie di problemi pratici, che Calvino puntualizza con la consueta precisione e non senza sfumatura ironica: la scelta del luogo, che deve essere il più possibile privo di illuminazione artificiale, il fatto che per osservare il cielo c’è bisogno di una mappa celeste e tale mappa va orientata opportunamente (Palomar si dimentica sistematicamente di farlo ed costretto poi a rigirarla più volte per riconoscere le stelle e le costellazioni che sta osservando), il fatto che poi il riconoscimento delle costellazioni sulla mappa stellare lo obbliga ad accendere frequentemente una lampadina (il che gli affatica la vista e gli impedisce di abituarla all’oscurità) la fastidiosa operazione di levare e mettere gli occhiali. Tuttavia questo momento è per lui così importante da fargli ritenere di poco conto questi inconvenienti.

«Dall’ultima volta in cui Palomar ha guardato le stelle sono passati settimane o mesi; il cielo è tutto cambiato; la Grande Orsa (è agosto) si distende quasi ad accucciarsi sulle chiome degli alberi a nord-ovest; Arturo cala a picco sul profilo della collina trascinando tutto l’aquilone di Boote; esattamente a ovest è Vega, alta e solitaria; se Vega è quella, questa sopra il mare è Altair e quella è Deneb che manda un freddo raggio allo zenit.»

Palomar nota poi che riconoscere le forme delle costellazione nella realtà è difficile; «Stanotte il cielo sembra molto più affollato di qualsiasi mappa; le configurazioni schematiche risultano più complicate e meno nette; ogni grappolo potrebbe contenere quel triangolo o quella linea spezzata che stai cercando; e ogni volta che rialzi gli occhi su una costellazione ti sembra un po’ diversa.»

Come ognuno di noi quando osserva le stelle e cerca di riconoscervi le costellazioni tradizionali anche Palomar si rende conto dell’arbitrarietà della loro classificazione tradizionale, perciò per riconoscerle sceglie anzitutto di cercare nel cielo le immagini di ciò che rappresentano. In tal modo una stella viene resa riconoscibile dalla funzione che assume all’interno di quell’immagine: «Per riconoscere una costellazione, la prova decisiva è vedere come risponde quando la si chiama. Più convincente del collimare di distanze e configurazioni con quelle segnate sulla mappa, è la risposta che il punto luminoso dà al nome con cui è stato chiamato, la prontezza a identificarsi con quel suono diventando una cosa sola. I nomi delle stelle per noi orfani di ogni mitologia sembrano incongrui e arbitrari; eppure mai potresti considerarli intercambiabili. Quando il nome che il signor Palomar ha trovato è quello giusto, se ne accorge subito, perché esso dà alla stella una necessità e un’evidenza che prima non aveva; se invece è un nome sbagliato, la stella lo perde dopo pochi secondi, come scrollandoselo di dosso, e non sa più dov’era e chi era. A varie riprese il signor Palomar decide che la Chioma di Berenice (costellazione da lui amata) è questo o quello sciame luminoso dalle parti di Ofiuco: ma non torna a sentire il palpito altre volte provato al riconoscere quell’oggetto così sontuoso e pur così leggero. Solo in seguito si rende conto che se non la trova è perché la Chioma di Berenice in questa stagione non si vede. Per larga parte il cielo è attraversato da striature e macchie chiare; la Via Lattea prende d’agosto una consistenza densa e si direbbe che trabocchi dal suo alveo; il chiaro e lo scuro sono così mescolati da impedire l’effetto prospettico d’un abisso nero sulla cui vuota lontananza campeggiano, ben in rilievo, le stelle; tutto resta sullo stesso piano: scintillio e nube argentea e tenebre.»

Nell’immagine del cielo è disegnato il ritratto di un universo antico, racchiuso da una volta del cielo nella quale sono le stelle gli unici riferimenti in una oscurità vuota, dove lo sguardo si perde senza alcuna percezione di distanza; e le stelle, più o meno luminose, ci appaiono a loro volta come piccole lampade appese ad un soffitto scuro e grande, che non riescono ad illuminare tutto forse perché esso è troppo grande o forse perché sono loro ad essere troppo piccole e deboli....Così per secoli, anche dopo che i Greci cominciarono (con Pitagora, Platone e Aristotele) a pensare ad un universo organizzato e a costruirne una struttura che spiegasse razionalmente quello che si vedeva nel cielo, la loro costruzione dell’universo è rimasta sempre racchiusa entro un guscio sferico, sulla cui parte interna erano rigidamente collocate le cosiddette “stelle fisse”: «È questa l’esatta geometria degli spazi siderei, cui tante volte il signor Palomar ha sentito il bisogno di rivolgersi, per staccarsi dalla Terra, luogo delle complicazioni superflue e delle approssimazioni confuse? Trovandosi davvero in presenza del cielo stellato, tutto sembra che gli sfugga. Anche ciò a cui si credeva più sensibile, la piccolezza del nostro mondo rispetto alle distanze sconfinate, non risulta direttamente.

Il firmamento è qualcosa che sta lassù,
che si vede che c’è,
ma da cui non si può ricavare
nessuna idea di dimensioni né di distanza.
»

Qui comincia a delinearsi chiaramente il distacco tra l’esperienza individuale di Palomar e la storia dell’uomo; perché un universo oscuro, senza percezione della distanza, per gli antichi era un universo finito e di forma sferica, motivo di sicurezza in quanto espressione visibile di stabilità e uniformità; per Palomar è invece una coltre di mistero calato sulle risposte che egli cerca fuori di sé.

«Questa osservazione delle stelle trasmette un sapere instabile e contraddittorio, - pensa Palomar, - tutto il contrario di quello che sapevano trarne gli antichi. Sarà perché il suo rapporto col cielo è intermittente e concitato, anziché una serena abitudine? Se lui si obbligasse a contemplare le costellazioni notte per notte e anno per anno, e a seguirne i corsi e i ricorsi lungo i curvi binari della volta oscura, forse alla fine conquisterebbe anche lui la nozione d’un tempo continuo e immutabile, separato dal tempo labile e frammentario degli accadimenti terrestri. Ma basterebbe l’attenzione alle rivoluzioni celesti a marcare in lui questa impronta? O non occorrerebbe soprattutto una rivoluzione interiore, quale egli può supporre solo in teoria, senza riuscirne a immaginare gli effetti sensibili sulle sue emozioni e sui ritmi della mente?
Della conoscenza mitica degli astri egli capta solo qualche stanco barlume; della conoscenza scientifica, gli echi divulgati dai giornali; di ciò che sa diffida; ciò che ignora tiene il suo animo sospeso. Soverchiato, insicuro, s’innervosisce sulle mappe celesti come su orari ferroviari scartabellati in cerca di una coincidenza...
»

Italo Calvino mostra dunque con la consueta precisione l’incontro tra il mondo esterno, fatto d onde, erba, Sole, Luna, stelle e pianeti, e la realtà interiore dell’uomo con le sue grandi aspettative da se stesso, e gli squilibri tra esse e i suoi i suoi strumenti di conoscenza sempre inadeguati; e quella venatura ironica che conclude i goffi e infruttuosi tentativi del signor Palomar di trovare le risposte più profonde sull’universo, non penso proprio vada intesa come l’espressione di una mancanza di fiducia verso la conoscenza scientifica in generale.

In fondo quello che tormenta Palomar è la sua incapacità di trovare le risposte nel cielo; è lo stesso senso di frustrazione che prova l’uomo quando cerca di vedere il traguardo del suo cammino verso la conoscenza, e non lo vede e quando perde il piacere dell’osservazione, della descrizione e della riflessione. In realtà non bisogna mai dimenticare che la scienza, liberata dalle finalità estreme e dalle responsabilità profonde di cui la si carica, è anzitutto un gioco avvincente, che fa calcolare, riflettere e discutere giorni e notti su un problema, che accende menti, cuori, occhi e parole dello stesso entusiasmo che vediamo negli sguardi e nei gesti di un bambino impegnato nel gioco più bello.

«Sta da mezzora sulla spiaggia buia, seduto su uno sdraio, contorcendosi verso sud o verso nord, ogni tanto accendendo la lampadina e avvicinando al naso le carte che tiene dispiegate sui ginocchi; poi a collo riverso ricomincia l’esplorazione partendo dalla Stella Polare. Delle ombre silenziose si stanno muovendo sulla sabbia; una coppia di innamorati si stacca dalla duna, un pescatore notturno, un doganiere, un barcaiolo. Il signor Palomar sente un sussurro. Si guarda intorno: a pochi passi da lui si è formata una piccola folla che sta sorvegliando le sue mosse come le convulsioni di un demente.»

Le citazioni sono tratte da “Palomar” di Italo Calvino (Oscar Mondadori, 1994).

 

Monografia n.49-2000/8


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