Fantasmi del sistema solare: il pianeta intramercuriano, Plutone e il pianeta X
di Marco Marchetti

 

INTRODUZIONE

I protagonisti di questo incontro serale sono tre oggetti che, per un verso o per l’altro, possono essere considerati dei “fantasmi” del nostro sistema solare.

Il primo di essi è il pianeta intramercuriale: la sua presenza era ritenuta necessaria per spiegare una irregolarità del moto di Mercurio, a più riprese molti astronomi (alcuni dei quali molto autorevoli) erano convinti di averlo scoperto ma alla fine quasi tutti si resero conto di aver preso un granchio colossale.

Il secondo è Plutone: la sua presenza era necessaria per spiegare alcune irregolarità del moto di Urano, nel 1930 fu effettivamente scoperto ma, con il passare degli anni, ci si rese conto che il nuovo pianeta era ben diverso da quello che ci si aspettava e che non poteva essere il responsabile delle anomalie del moto di Urano.

A questo punto entra in gioco il pianeta extraplutoniano: secondo alcuni la sua presenza è necessaria per spiegare le suddette anomalie del moto di Urano ma non è mai stato scoperto.

 

VULCANO, IL PIANETA INTRAMERCURIALE

I pianeti conosciuti fin dall’antichità sono cinque: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno; dei cinque Mercurio è il più piccolo e anche quello più vicino al Sole.

Essendo un pianeta interno (cioè situato fra la Terra e il Sole) occasionalmente Mercurio transita attraverso il disco solare; se l’orbita di Mercurio e quella terrestre si trovassero sullo stesso piano i transiti sarebbero molto più frequenti (tutte le volte che il pianeta passa fra la Terra e il Sole). In realtà le due orbite giacciono su piani diversi inclinati di 7 gradi l’uno rispetto all’altro; di conseguenza Mercurio, quando si viene a trovare fra la Terra e il Sole, normalmente passa un po’ sopra oppure un po’ sotto al Sole. I transiti avvengono in quelle rare occasioni in cui l’allineamento Terra-Mercurio-Sole è perfetto; i transiti di Mercurio sul Sole, a differenza di quelli di Venere estremamente più rari ma anche più spettacolari, sono visibili soltanto al telescopio.

Il più antico passaggio di Mercurio sul disco solare che si conosca fu predetto da Giovanni Keplero e osservato a Parigi da P. Gassendi il 9 novembre del 1631.

Da allora in poi i transiti di Mercurio furono osservati regolarmente e risultarono molto utili per confrontare il moto reale del pianeta con quello previsto dalle effemeridi (correggendo, se necessario, queste ultime). Dopo che Isaac Newton ebbe pubblicato la teoria della gravitazione universale fu possibile calcolare le posizioni dei pianeti con precisioni mai viste prima.
Unica eccezione: Mercurio.

Il transito sul Sole previsto per il 5 maggio 1707 risultò errato di un giorno; quello previsto per il 6 maggio 1707 risultò errato di diverse ore; stessa sorte ebbero i transiti del 1789, 1799 e 1802.

A questo punto fa il suo ingresso in campo il personaggio chiave di tutta la vicenda: Urbain Jean Joseph Le Verrier.

Le Verrier era un matematico francese famoso in tutto il mondo per avere scoperto (sulla base di precisi calcoli matematici) il pianeta Nettuno a partire dalle anomalie del moto di Urano.

Le Verrier affrontò il problema delle irregolarità del moto di Mercurio e nel 1849 annunciò di averne scoperto la causa: il perielio dell’orbita di Mercurio si muoveva di 38 secondi d’arco per secolo più rapidamente di quanto previsto dalla teoria di Newton; l’origine di questa anomalia doveva risiedere nel disturbo di un pianeta che doveva trovarsi fra Mercurio e il Sole. Il presunto pianeta intramercuriale poteva essere scoperto in due modi:

Un medico francese appassionato di astronomia, il dottor Lescarbault, che era venuto a conoscenza del problema, decise di comunicare a Le Verrier i risultati di una osservazione solare che aveva effettuato alcuni mesi prima: il 26 marzo 1859 Lescarbault aveva osservato una macchiolina scura attraversare il disco del Sole.

Le Verrier non perse un attimo di tempo; piombò come un falco a casa di Lescarbault per conoscerne tutti i particolari. Purtroppo gli strumenti usati dal medico erano molto rudimentali ma, cosa ancora più grave, Lescarbault non registrava le proprie osservazioni cosicché i particolari della fatidica osservazione dovettero essere ricostruiti a memoria.
Nonostante tutto Le Verrier si dichiarò molto soddisfatto: stimò per il nuovo pianeta una massa pari a 1/17 di quella di Mercurio, gli assegnò un periodo di rivoluzione di 19,7 giorni e lo battezzò con il nome di Vulcano.

La notizia di questa seconda scoperta di Le Verrier fece rapidamente il giro d’Europa. Diversi astronomi controllarono tutte le osservazioni del Sole eseguite negli anni precedenti in cerca di indizi della presenza di Vulcano; furono trovate diverse osservazioni sospette che potevano ricondurre a Vulcano e i risultati furono comunicati a Le Verrier.

Sulla base di questi risultati Le Verrier previde un transito di Vulcano sul Sole fra il 29 marzo e il 7 aprile 1870; i telescopi di tutto il mondo furono puntati sul Sole ma non si vide assolutamente nulla.

Nonostante l’osservazione di Lescarbault fosse stata confutata da altri osservatori (i quali avevano osservato il Sole lo stesso giorno ma non avevano notato nulla di strano) la fede di Le Verrier e dei suoi sostenitori nell’esistenza di Vulcano rimaneva incrollabile.

Gli anni compresi fra il 1862 e il 1876 furono gli anni d’oro di Vulcano; l’inafferrabile pianeta intramercuriale era diventato un caso internazionale e tutto il mondo gli dava la caccia. Molti astronomi e astrofili affermarono di averlo trovato oppure di averlo osservato in passato; la rivista Scientific American fu subissata di lettere in tal senso: in un primo momento vennero tutte pubblicate ma dopo il 1876 venne presa la decisione di non pubblicarle più.

L’ormai anziano Le Verrier riprese in mano tutta la questione e dopo avere passato al setaccio tutte le segnalazioni previde un transito del pianeta sul Sole fra il 2 e il 3 ottobre 1876. Il pianeta, però, non fu osservato.

Un nuovo transito fu previsto per il 22 marzo 1877 ma anche in questo caso di pianeti intramercuriali non fu scoperta alcuna traccia.

Il 23 settembre 1877 Le Verrier, ancora convinto di avere scoperto un pianeta interno a Mercurio, si spense.

Con la scomparsa di Le Verrier l’interesse per Vulcano rapidamente sparì, almeno in Europa. Negli Stati Uniti, invece, l’interesse per Vulcano era ancora molto alto; il metodo seguito nelle ricerche era però diverso: invece che cercare di sorprenderlo durante uno dei suoi passaggi sul disco solare lo si cercava nelle immediate vicinanze del Sole durante la fase di totalità delle eclissi.

Durante l’eclisse totale del 29 luglio 1878 un gran numero di telescopi fu puntato in direzione del Sole. La maggioranza degli osservatori non vide nulla ma due di essi, J. C. Watson (direttore dell’osservatorio del Michigan) e L. Swift (un abile amatore) in maniera indipendente l’uno dall’altro, annunciarono di avere osservato Vulcano due gradi a sud ovest del Sole; esso appariva di magnitudine 4,5 in una zona priva di stelle.
In realtà qualcuno fece presente che in zona era presente una stella della costellazione del Cancro di luminosità molto simile. Inoltre Watson, dopo avere elaborato in maniera più accurata le proprie osservazioni, trovò che la posizione in cui aveva osservato Vulcano non coincideva più con quella di Swift.
A causa di questi risultati controversi nacquero delle polemiche molto roventi fra sostenitori e non dell’esistenza di Vulcano che si placarono parzialmente solo nel 1880 con la morte di Watson.

Altri astronomi, invece che perdersi in sterili polemiche, continuarono ad osservare i dintorni del Sole durante le eclissi; queste osservazioni continuarono, con tecniche e strumenti sempre più sofisticati, fino al 1908; di pianeti intramercuriali, però, neanche l’ombra. Di conseguenza anche negli Stati Uniti l’interesse per Vulcano venne meno. Era ormai chiaro che non esisteva alcun pianeta intramercuriale.

Rimaneva, però, misteriosa la causa dell’anomalia del moto del perielio di Mercurio che la teoria di Newton continuava a non riuscire a spiegare; il valore era stato ulteriormente corretto ed era passato da 38 a 43 secondi d’arco per secolo.

La soluzione del mistero arrivò nel 1916; in quell’anno Albert Einstein pubblicò la sua Teoria della Relatività Generale.
Secondo questa teoria la gravità non è più una forza che attira i corpi ma l’effetto della curvatura dello spazio; le teoria di Einstein, la cui validità è stata verificata nel corso degli anni con numerosissimi esperimenti, spiega molto bene il residuo di 43 secondi d’arco per secolo del moto del perielio di Mercurio per cui la presenza di Vulcano non era più necessaria.

 

PLUTONE, DI TUTTO TRANNE QUELLO CHE CI SI ASPETTAVA

Il protagonista della vicenda di Vulcano fu sicuramente Le Verrier; Le Verrier era diventato famoso nel 1846 per avere scoperto, come accennato in precedenza, il pianeta Nettuno a partire dalle irregolarità del moto di Urano.
Con il passare degli anni, però, ci si accorse che la presenza di Nettuno non riusciva a spiegare tutte le anomalie del moto di Urano; di conseguenza era logico supporre l’esistenza di un ulteriore pianeta al di là dell’orbita di Nettuno.

Il pianeta, a lungo cercato, fu finalmente scoperto nel 1930 dall’astronomo americano Clyde Tombaugh in un punto molto vicino a quello previsto calcolato in base alle perturbazioni del moto di Urano. Il nuovo pianeta fu chiamato Plutone (Pluto in inglese) anche perché le prime due lettere corrispondevano alle iniziali di Percival Lowell, l’astronomo che più di ogni altro si era impegnato nella ricerca del pianeta.

Plutone era appena stato scoperto e già cominciava a seminare dello scompiglio fra gli astronomi.

La disposizione dei pianeti nel sistema solare non è casuale: nelle vicinanze del Sole troviamo un primo gruppo di quattro pianeti (i pianeti di tipo terrestre) molto piccoli, rocciosi, dotati di una superficie solida e poveri di elementi leggeri; segue un altro gruppo di quattro pianeti (i pianeti di tipo gioviano o giganti gassosi) molto grandi e ricchi di elementi leggeri, molto più simili a stelle in miniatura.
Questo perché nelle prime fasi di vita del sistema solare gli elementi leggeri erano stati spinti lontano dalla radiazione del neonato Sole. Era quindi logico supporre che anche Plutone fosse un pianeta molto massiccio cioè un gigante gassoso, anche perché la sua massa doveva essere in grado di influenzare il moto di Urano.
Dato che Urano appare di magnitudine 5,7 (al limite della visibilità ad occhio nudo) e Nettuno appare di magnitudine 7,7 (visibile con un buon binocolo) ci si aspettava per Plutone una magnitudine intorno alla decima. Plutone, però, appare di magnitudine 14, cioè quaranta volte meno luminoso del previsto. Siccome la distanza dal Sole (subito calcolata in base ai primi elementi orbitali) non poteva giustificare una luminosità così bassa fu subito chiaro che Plutone non poteva essere un gigante gassoso.

Comunque se Plutone non poteva essere un gigante gassoso poteva sempre essere il più grande dei pianeti di tipo terrestre anche se non era ben chiaro che cosa ci facesse un pianeta di tipo roccioso in quella zona. Però tutti gli indizi portavano alla conclusione che Plutone fosse un pianeta molto piccolo.

In primo luogo l’eccentricità dell’orbita; l’eccentricità esprime il grado di schiacciamento dell’orbita cioè di quanto l’orbita (ellittica) si discosta da un cerchio.
Generalmente le orbite dei pianeti hanno una eccentricità molto bassa (sono cioè quasi circolari) tranne Marte e Mercurio che sono anche (guarda caso) i pianeti più piccoli; ora l’eccentricità dell’orbita di Plutone risultò essere molto più grande di quella di Mercurio. Addirittura quando Plutone raggiunge il suo perielio (il punto dell’orbita più vicino al Sole) viene a trovarsi all’interno dell’orbita di Nettuno e quindi non è più il pianeta più lontano dal Sole. Plutone ha raggiunto il suo perielio nel 1989 e tornerà ad essere il pianeta più lontano nel 1999. Ora non c’è scritto da nessuna parte che più l’eccentricità dell’orbita di un pianeta è alta e più il pianeta è piccolo; è solo un indizio ma comunque dava da pensare.

Il secondo indizio riguardava l’inclinazione del piano su cui giace l’orbita di Plutone rispetto al piano che contiene l’orbita terrestre.
In genere queste inclinazioni sono molto basse tranne che nel caso di Mercurio che, ricordiamo ancora, era il pianeta più piccolo. L’inclinazione dell’orbita di Plutone risultò essere molto più alta (17 gradi) di quella di Mercurio (7 gradi); anche in questo caso non esiste una relazione provata fra alta inclinazione orbitale e piccolezza di un pianeta però era un altro indizio su cui riflettere.

Terzo indizio il periodo di rotazione: nel 1954 si riuscì a determinare il periodo di rotazione di Plutone che risultò essere pari a sei giorni e mezzo, un valore abbastanza alto tipico di piccoli pianeti.
Il primo tentativo di misurare il diametro di Plutone fu effettuato dall’astronomo Peter Kuiper nel 1950; il diametro apparente risultò essere di 0,23 secondi d’arco che corrisponde ad un diametro effettivo di 6.000 chilometri. Queste osservazioni (peraltro non accettate da tutti) indicavano un pianeta ancora più piccolo, più piccolo di Marte.
Una grande occasione per misurare con precisione il diametro di Plutone doveva presentarsi il 28 aprile 1965; in quella data Plutone avrebbe dovuto occultare una stella della costellazione del Leone. Questo genere di fenomeni è molto utile poiché mentre la stella è puntiforme il pianeta ha un diametro misurabile; di conseguenza è sufficiente misurare con precisione l’intervallo di tempo fra la scomparsa e la successiva riapparizione della stella per calcolare il diametro del pianeta. Quella sera gli astronomi ebbero una grossa delusione perché l’occultazione non avvenne; ciò indicava con sicurezza un pianeta ancora più piccolo, non più grande di Mercurio.

Nel 1978 un astronomo americano, James Christie, analizzando una serie di foto di Plutone molto nitide notò una protuberanza che partiva dal disco del pianeta presente in tutte le immagini e che era in sincronia con il periodo di rotazione del pianeta. Successive osservazioni più accurate indicarono che quella protuberanza altro non era che un satellite molto vicino a Plutone che fu chiamato Caronte.

Nel 1980 Plutone doveva occultare un’altra stella; questa volta Plutone mancò il bersaglio ma Caronte lo centrò in pieno. I risultati dell’occultazione attribuivano a Caronte un diametro di 1.200 chilometri e lo ponevano a 20.000 chilometri di distanza da Plutone.
Adesso la questione cominciava a diventare meno confusa; infatti la presenza di un satellite consentiva di calcolare con sufficiente precisione la massa di Plutone che risultò essere 1/500 di quella terrestre, addirittura Plutone risultava molto più piccolo (1/6) della Luna. Il suo diametro fissato a 3.000 chilometri è stato successivamente ridotto e probabilmente non supera i 2.500 chilometri.

Un pianeta così piccolo (ormai molti astronomi non lo considerano più un pianeta bensì un asteroide) certamente non può essere la causa delle anomalie del moto di Urano e Nettuno; ma allora come mai è stato scoperto molto vicino alla posizione predetta in base proprio a tali anomalie?

La risposta non può essere che una sola: per puro caso.

 

IL PIANETA X: L’ULTIMA FRONTIERA

Se Plutone non può essere la causa delle irregolarità del moto di Urano e Nettuno allora il responsabile è ancora là, in attesa di essere scoperto.

Il candidato più autorevole sembrava essere un ulteriore pianeta, un gigante gassoso, ancora più lontano: il Pianeta X dove la lettera X, oltre a simbolo di mistero, sta per decimo (Plutone è il nono).

Un altro indizio della presenza di un pianeta extraplutoniano veniva dallo studio delle comete; ad ogni pianeta di tipo gioviano corrisponde un gruppo di comete il cui afelio (il punto dell’orbita più lontano dal Sole) si trova in corrispondenza dell’orbita del pianeta stesso.
Ora era stato individuato un gruppo di otto comete il cui afelio si trovava in punto ben al di là dell’orbita di Plutone. Il Pianeta X però non è mai stato scoperto.

Comunque sia il Pianeta X ebbe il suo momento di gloria nel 1972 quando un astronomo, Joseph Brady, annunciò che il decimo pianeta esisteva e che egli ne aveva calcolato massa ed orbita.
Questa convinzione era basata su uno studio della cometa di Halley; Brady scoprì che si poteva migliorare la precisione degli elementi orbitali della cometa introducendo un termine correttivo nella equazione del moto. Quale migliore responsabile di questo termine correttivo se non il Pianeta X?

Brady calcolò un orbita con l’afelio situato a 60 unità astronomiche (1 u.a = 150 milioni di chilometri) dal Sole che il pianeta avrebbe impiegato 464 anni a percorrere e fin qui niente di strano. Ciò che invece stupì molto la comunità astronomica era l’altissima inclinazione dell’orbita (120 gradi) e, soprattutto, la grande massa (3 volte quella di Saturno) che il presunto pianeta avrebbe dovuto avere. Era molto strano che un pianeta del genere fosse sempre riuscito a sfuggire alle osservazioni.
Brady aveva anche indicato la posizione in cui andare a cercare il pianeta; i telescopi furono puntati in quella direzione ma non fu scoperto assolutamente nulla. Successivi studi dimostrarono che il pianeta di Brady non poteva esistere poiché la sua grande massa avrebbe influenzato tutto il sistema solare e nulla del genere era mai stato osservato; nel frattempo P. Kuiper aveva proposto una soluzione alternativa per il termine correttivo da inserire nella equazione del moto della cometa di Halley.

Non per questo la questione del Pianeta X è chiusa; le irregolarità del moto di Urano e Nettuno sono ancora lì e quindi potrebbe comunque esistere un pianeta extraplutoniano anche se molto diverso da quello proposto da Brady.

Alcuni astronomi molto audaci propendono invece per cause non riconducibili alla presenza di un decimo pianeta; secondo loro la spiegazione delle anomalie del moto di Urano e Nettuno starebbe nella presenza di un qualche corpo oscuro come una nana rossa, una nana nera o addirittura un buco nero.

Un’ipotesi proposta a metà degli anni ‘80 indicava come il Sole non fosse una stella singola bensì una stella doppia. La compagna (alla quale era stato dato il nome di Nemesi) era una nana rossa che percorreva un’orbita molto eccentrica (cioè molto allungata) e che, di conseguenza, arrivava a spingersi nei dintorni del Sole a intervalli di tempo molto lunghi. Anche questa teoria è stata completamente abbandonata.

La partita del pianeta X è quindi tuttora aperta a qualsiasi risultato.

 

Monografia n.29-1998/8


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