Le costellazioni dello zodiaco:
VERGINE

di Annalisa Ronchi

Demetra, dea della fertilità del suolo
Demetra, dea della fertilità del suolo.
Il suo nome significa “Terra madre”

L’istinto dell’uomo di cercare spiegazioni per ogni cosa che è presente intorno a lui, insieme al nostro sistema occhio-cervello, che a volte inventa gli oggetti per dare un significato a ciò che vediamo, hanno creato le costellazioni, viste nei secoli come un enorme libro di storie e di leggende.

Se durante una limpida notte estiva immaginiamo di allungare il timone del Grande Carro, incontreremo prima la stella Arturo nella costellazione del Boote, poi troveremo un astro molto luminoso, Spica, la stella più brillante della costellazione della Vergine.

Arturo, a (alfa) Bootis è una gigante rosso-arancio, 24 volte più grande del Sole e distante da noi 36 anni luce. Arturo ha una massa simile a quella del Sole, e si ritiene che tra 5 miliardi di anni, la nostra stella si gonfierà fino a diventare come Arturo è oggi.

La costellazione della Vergine compare a est in marzo, culmina il 10 maggio e scompare in settembre verso occidente.

Da sempre la figura disegnata da queste stelle è quella di una donna alata che tiene nella mano sinistra una spiga di grano, la stella Spica appunto. Questa figura femminile governava il raccolto dell’orzo e del grano e a qualunque latitudine è possibile ritrovarla nelle culture agricole.

L’universalità di tale concetto fa riferimento al periodo della nascita dell’agricoltura e ci porta intorno al 6000 a.C. quando i rudimenti dell’agricoltura si affermavano nella storia dell’uomo con la cosiddetta “rivoluzione neolitica”.

Certo è evidente il contrasto tra la provvisorietà dei bivacchi temporanei di cacciatori/raccoglitori e la stabilità dei villaggi permanenti con l’addomesticazione di animali e la cura delle coltivazioni. Queste trasformazioni hanno comportato profondi mutamenti tecnologici, sociali ed ideologici nelle culture umane.

La donna, in quanto perpetuatrice del gruppo, fu la responsabile di questo rinnovamento e, poiché la società era matriarcale, l’espressione divina più alta era la Grande Madre, la Terra.

Nana, Eva, Ishtar, Demetra, Ecate, Temi, Hera, Astrea, Diana, Cibele, Iside, Fortuna, Erigone, Sibilla, la Vergine Maria sono solo alcuni dei nomi che questa poliedrica dea ha assunto nel tempo e nello spazio. Prima dell’idea del dio creatore maschio, esisteva lei, la Grande Madre Terra, creatrice di tutto, simbolo della legge e del potere della procreazione.

Costellazione della Vergine, San Marino, 1969

La costellazione della Vergine è una della costellazioni più antiche e più importanti anche se è formata da poche stelle abbastanza brillanti, tra le quali:

a (alfa) Virginis, Spica è una stella bianco-azzurra 8 volte più grande del Sole e 2300 volte più luminosa. È posta a 275 anni luce da noi.

g (gamma), distante 36 anni luce, è una celebre stella doppia, formata da due componenti bianco-gialle che orbitano l’una intorno all’altra con un periodo di 172 anni.

e (epsilon), Vindemiatrix) è una gigante gialla distante 100 anni luce.

Sono state ritrovate immagini di pietra e terracotta molto antiche della Grande Madre. Quando la scrittura ancora non era stata inventata, la tradizione orale aveva tramandato la storia di una regina del mondo che predominava incontrastata all’epoca di una sorta di età dell’oro fino all’ascesa degli dei solari maschili, portatori delle guerre e delle violenze, che la detronizzarono senza però riuscire mai a cancellarne il ricordo.

I Sumeri, inventori del primo alfabeto, il cuneiforme, ci hanno fatto pervenire i documenti scritti più antichi della manifestazione orientale della Grande Madre. Inizialmente fu venerata come Nana, la dea della vita e della natura, della fecondità e della nascita. Era adorata specialmente nella città di Uruk, nella Mesopotamia meridionale, dove sorgeva il suo tempio, l’Eanna, la Casa del Cielo, ed era raffigurata nuda con forme molto sviluppate, nell’atto di comprimersi con le mani il seno. Poi, in queste terre, Nana diventa per motivi sconosciuti Ishtar, spesso invocata con l’appellativo rivelatore di “Signora di Eanna”.

Il nome Nana è però rimasto in alcune zone dell’Africa, come presso gli Yoruba della Nigeria e i Fon del Benin come dea della Terra.

Ishtar in origine fu la dea della vegetazione che rinverdisce dopo il freddo inverno: così è descritta in una saga chiamata “il Pellegrinaggio di Ishtar”, nella quale si narra che la dea si innamorò di Tammuz, un giovane che fu ferito mortalmente da un cinghiale durante il solstizio estivo.

Ishtar, inconsolabile per la perdita prematura del suo amante, era discesa nel regno dei morti per convincere Ereshkigal, sua sorella e regina degli inferi, a restituirle Tammuz, ma come risposta venne incatenata.

Durante la sua prigionia, sulla Terra il mondo vegetale smise di procreare mettendo in pericolo la vita di uomini e animali, finché intervenne Ea (il signore degli dei) che ordinò a Ereshkigal la liberazione di Ishtar e di Tammuz.

Qui il simbolismo astronomico è palese: la Terra (Ishtar) si unisce con il sole primaverile (Tammuz) e si compre di verde; il sole ardente dell’estate (il cinghiale) uccide la gentilezza della primavera, nuovi semi vengono interrati (i due amanti nell’oltretomba) e dopo l’inverno sterile il ciclo si compie di nuovo.

In seguito, Ishtar venne considerata prevalentemente come dea dell’amore, descritta come colei che non poteva essere soddisfatta nemmeno da centoventi amanti, e viene identificata con il pianeta Venere: come Stella del mattino, figlia del Sole, fu immaginata guerriera fredda e crudele, astro che annuncia la venuta del nuovo giorno portatore di nuove sfide; come Stella della Sera, figlia della Luna, era la dea dell’amore che attira l’uomo verso la donna e in onore della quale si praticava la prostituzione sacra. Come dea della natura essa è la Luna nel suo aspetto fertile e procreativo, mentre viene identificata con la costellazione della Vergine come madrina dei raccolti.

Ritroviamo la figura femminile per eccellenza nella titanessa Temi, madre delle Stagioni, delle Ore e delle tre Moire. Proveniente dal neolitico greco, Temi (Ordine) era la dea che regolava il succedersi dei mesi, manifestandosi come Antea (Fiorita), dea della primavera, Iperea (Colei che sta sopra), dea dell’estate e Pittea (Dea del pino), dea dell’autunno.

Le Moire, o Parche rappresentavano i tre aspetti della Luna ed erano chiamate Cloto, “la Filatrice”, Lachesi, “la Misuratrice” e Atropo, “Colei che non si può evitare”. Il loro compito era quello di tessere, misurare e tagliare il filo della vita di tutte le creature.

Figlie di Temi sono anche le mitiche Ore, le tre dee della civiltà e della pace. Ora significa “Tempo Giusto” ed esse erano le guardiane delle porte del cielo e dell’Olimpo, ed erano chiamate Eunomia, “Ordinamento Legale”, Dike, “Giusta Ricompensa” o “Giustizia”, Irene, “Pace”.

Arato scrisse, nel poema astronomico “Phenomena”, che Dike, durante il periodo dell’Età dell’Oro viveva liberamente tra gli uomini. A quel tempo gli uomini vivevano liberi da ogni guerra nutrendosi dei frutti spontanei della terra. All’Età dell’Oro successe l’Età dell’Argento, gli uomini erano meno puri, più inclini alla violenza, all’inganno e al possesso.

Dike si ritirò a vivere tra le montagne, dalle quali discendeva per cercare di dissuadere l’umanità dalla degenerazione. Infine sopraggiunse l’Età del Bronzo, nella quale odio, guerra e violenza dilagarono incontrollate. Dike, addolorata, decise di abbandonare gli uomini e si ritirò lassù divenendo la costellazione della Vergine.

Anche in Egitto il culto della Luna precedette quello del Sole, infatti il culto di Iside dea lunare, sorella e sposa di Osiride, il dio lunare, appare in scritti datati 3000 a.C. circa mentre il culto di Ra, il dio del Sole, compare solo verso il 1800 a.C..

In origine Iside, come Nana, rappresentava la Madre Natura e Osiride la Luna, ma con l’andare del tempo, mentre Osiride si identificava sempre più con il Sole, Iside divenne la dea lunare per eccellenza, e la sua natura assunse il duplice aspetto di creatrice madre e nutrice di tutti ma anche di potenza distruttrice.

Per questo dualismo, sempre presente in ogni tempo, molte antiche rappresentazioni della Dea Madre hanno il volto metà bianco e metà nero.

Spesso Iside era rappresentata come una dea nera con un bambino in braccio (Horus) e questa immagine divenne così popolare nel mondo greco e romano che molti ritratti di Iside e Horus furono venerati dalle successive comunità cristiane. Con una operazione nota come “sincretismo” - la stessa per cui agli dei del voodoo di Haiti sono state associate le immagini dei santi cattolici importate dai missionari - la Grande Madre pagana avrebbe assunto il volto di Maria, colorato però in nero, come quello delle sue prime raffigurazioni, e ancora oggi esiste una particolare adorazione per le Madonne nere, reputate particolarmente miracolose dai fedeli cattolici e ortodossi.

A Dendera, in Egitto, è stato trovato un soffitto scolpito a bassorilievo con la rappresentazione delle costellazioni; nella posizione della Vergine appaiono due figure femminili, una in piedi con in mano una spiga di grano e l’altra seduta con un bambino in braccio.

La Madre della Terra, in greco Demetra, era la signora delle messi, della vegetazione, della fertilità, del raccolto e della civiltà. Prima di lei l’uomo era nomade, viveva di tuberi, piante e frutta, con lei si civilizzò, divise le terre, le dissodò, fondò le città e forse è proprio questo il significato di Eva che aveva mangiato i frutti dell’albero della conoscenza.

Il centro greco del culto di Demetra era Eleusi, vicino ad Atene, dove ogni anno venivano celebrati i suoi misteri durante le “Tesmoforie”, così chiamate dal suo appellativo Tesmofora, “Legislatrice”. Questa celebrazione durava cinque giorni e potevano parteciparvi solo donne sposate.

Demetra era solitamente rappresentata con una falce in una mano e nell’altra un mazzo di spighe, con il capo e le vesti cosparsi di papaveri, fiori a lei sacri perché crescono insieme al grano.

La dea aveva un bella figlia, Persefone, di cui si innamorò il dio dell’oltretomba Ade (Plutone). Sapendo che la ragazza non avrebbe mai accettato di sposarlo spontaneamente, decise di rapirla per condurla nel regno dei morti.

Alla scomparsa della figlia, Demetra vagò disperata cercando invano di ritrovarla. Finché giunse alla corte di Celeo. Qui, il figlio del re, Trittolemo, rivelò alla dea che Eubuleo, mentre pascolava i maiali, aveva udito un pesante tambureggiare di zoccoli, quindi un baratro si era aperto all’improvviso nel terreno ed era apparso un cocchio trainato da cavalli neri guidato da un nero cavaliere dal volto invisibile, il quale teneva fra le braccia una fanciulla che lanciava grida disperate. Il cavaliere aveva guidato il carro direttamente nel baratro, che dopo il loro passaggio si era richiuso.

Il dolore di Demetra fu talmente grande che tutto il mondo vegetale impallidì e smise di produrre foglie e di generare frutti. L’erba smise di crescere così che uomini e animali si sarebbero presto estinti.

Dall’Olimpo Zeus tentò di dissuaderla ma Demetra fu irremovibile: se Persefone non le fosse stata restituita, il mondo sarebbe diventato un deserto. Zeus si vide perciò costretto a ordinare a suo fratello Ade di liberare la ragazza, a patto che non avesse mangiato nulla nel regno dei morti, ma il giardiniere degli inferi, Ascalafo, giurò di averla vista mangiare sette chicchi di melagrana.

L’incontro fra Demetra e Persefone avvenne a Eleusi, sotto la protezione della dea Ecate, chiamata da Demetra per assisterla, ma quando Ade rivelò il particolare della melagrana la dea si rabbuiò e minacciò di continuare la sterilità della terra.

Zeus allora decise che Persefone sarebbe rimasta quattro mesi all’anno con il marito, come regina del Tartaro, e gli altri in compagnia di Demetra.

Prima di tornare all’Olimpo, Demetra come ringraziamento iniziò ai misteri Trittolemo, gli diede semi di grano, un aratro di legno e un cocchio trainato da serpenti e lo mandò per il mondo ad insegnare agli uomini l’agricoltura.

Per questo Trittolemo è passato alla storia come il primo agricoltore.

Qui, nuovamente, la Grande Madre viene divisa in tre figure: vergine ninfa, Persefone, simbolo del grano verde; donna, Demetra, il grano maturo; vecchia saggia, Ecate (dea preellenica), simbolo del grano raccolto.

Gli astronomi del sesto e quinto millennio avanti Cristo ritenevano vi fosse una relazione tra le costellazioni della Vergine e quella del Boote. per spiegare tale convinzione usavano alcuni racconti mitologici.

In uno si narra dell’incontro di Demetra con il titano Giasione, al banchetto delle nozze fra Cadmo e Armonia. Inebriati dal nettare, si allontanarono per unirsi su un campo arato.

Da questa unione nacquero Filomelo e Pluto, che non andarono mai d’accordo perché Pluto, che era ricco, non diede mai nulla al fratello. Filomelo con i pochi soldi che aveva comprò due buoi e inventò il carro: fu così che arando e coltivando i campi, riuscì a mantenersi.

Demetra, ammirando la sua invenzione, lo immortalò fra le stelle e lo chiamò Boote, il “carrettiere”.

Un altro antichissimo accostamento fra le due costellazioni fu quello raccontato nel mito della ninfa Erigone, figlia di Icario, che era stato prescelto da Dioniso per essere il primo uomo a piantare e coltivare la vite per ottenere il vino.

Icario un giorno offrì generosamente vino ad alcuni pastori che, ignari dell’effetto della nuova bevanda, crollarono addormentati al suolo. I loro compagni, credendo che li avesse avvelenati, lo uccisero e lo sotterrarono sotto un pino.

La cagna di Icario, Mare, tornò a casa e convinse Erigone a seguirla al luogo della sepoltura. Scoperto il cadavere, la giovane in preda alla disperazione si uccise impiccandosi ai rami dello stesso albero.

Dioniso, impietosito, immortalò Erigone fra le stelle della Vergine, Icario in quelle del Boote e la cagna Mera nella stella Procione.

Procione è la stella più brillante della costellazione del Cane Minore, il secondo cane che segue Orione. È una stella giallo-bianca distante 11,3 anni luce, ed è quindi una delle stelle più vicine al Sole.

L’astronomo alessandrino Timocrate asseriva che fu l’osservazione di Spica e Regolo a far scoprire ad Ipparco nel terzo secolo avanti Cristo la precessione degli equinozi, nonostante che già esistesse una conoscenza pratica di questo fenomeno.

La precessione è dovuta all’attrazione del Sole e della Luna sulla Terra e determina una lenta rotazione, approssimativamente conica, dell’asse terrestre che si compie in circa 25.800 anni. La precessione fa sì che cambi nei secoli la direzione dell’asse della Terra, (e quindi i poli si spostano) e i valori delle coordinate celesti, determinando quindi anche il fenomeno della precessione degli equinozi, cioè un piccolo anticipo ogni anno del momento degli equinozi.

Regolo è la stella più brillante della costellazione del Leone. È una stella bianco-azzurra distante 85 anni luce.

Spica era legata al culto del dio preistorico egizio Min, dio della fertilità, solitamente rappresentato come un uomo con il membro eretto e un copricapo con due lunghe piume. Nel corso delle celebrazioni a lui dedicate, i sacerdoti portavano in processione piante sacre e il faraone gli offriva il primo fascio di grano. Successivamente il suo culto fu integrato al culto di Horus, il cui tempio a Tebe era orientato verso Spica, nel 3200 a.C., così come anche il tempio del Sole a Tell-al-Amarna intorno al 2000 a.C.

In Grecia sono stati ritrovati vicino Ramnus due templi costruiti l’uno accanto all’altro, entrambi orientati verso Spica per poterne seguire il lento spostamento precessionale. Il primo venne eretto nel 1092 a.C. ed il secondo nel 747 a.C., e così molti altri templi greci.

I nomadi del deserto chiamavano questa stella “al Simak al Azal”, la Solitaria indifesa, contrapposto alla stella Arturo, il Solitario armato. Anche nella letteratura copta si ritrova un titolo simile: Khoritos, Solitario. Spica si trova infatti in una zona del cielo particolarmente sgombra di stelle.

Secondo Al Biruni, Spica era un cucciolo del Leone e Arturo era il secondo cucciolo.

Anche se in questa area non c’è la Via Lattea, esistono numerose cose da vedere, come il cosiddetto “Ammasso della Vergine”, che dista circa 65 milioni di anni luce e si trova nella regione a est della costellazione, da a (alfa) a e (epsilon). Comprende circa 3.000 galassie.

Due anni fa è stato possibile osservare le immagini della galassia M 87 (NGC 4486) ottenute rielaborando le immagini rilevate dalla Wide Field Planetary Camera 2, lo straordinario occhio di Hubble. M 87 è una galassia ellittica gigante che appartiene all’ammasso della Vergine, e tale galassia offre uno spettacolo insolito. Nelle foto della NASA si presenta come una lunga striatura di luce bluastra che contrasta nettamente con i bagliori sparsi di stelle lontane e con la luce intensa della galassia da cui ha origine: si tratta di un getto di elettroni e di altre particelle che si propaga a velocità prossima a quella della luce. Già nel 1918 M 87 mostrò lo stesso fenomeno agli occhi dell’astronomo Heber D. Curtis, tuttavia solo le moderne tecniche d’indagine strumentale hanno potuto svelare come l’origine del getto siano gli intensi campi magnetici che si formano nel disco di gas riscaldati ad altissime temperature in veloce rotazione intorno al buco nero massiccio posto al centro della galassia.

A sud della Vergine troviamo M 104, la galassia Sombrero, una galassia spirale con un grande nucleo e una densa banda di polvere che la rende somigliante proprio ad un sombrero.

Come sempre, nei miti di ogni parte del mondo esistono molte similitudini, ma anche differenze. Noi apprezziamo queste opere della mente umana perché catturano la nostra attenzione.

Esse parlano non soltanto di popoli vissuti migliaia di anni fa ma anche di noi, uomini moderni, delle nostre speranze, delle nostre paure, gioie, tragedie anche se ne trattano con parole diverse.

Impariamo l’armonia con chi non condivide il nostro modo di vivere o di vedere le cose, in fondo la differenza principale tra quelli che chiamiamo miti e le credenze attuali è che ai primi non ci si crede più.

 

Camminando si apprende la vita.
Camminando si conoscono le cose.
Camminando si sanano le ferite del giorno prima.
Cammina guardando una stella,
ascoltando una voce,
seguendo le orme di altri passi.
Cammina cercando la vita,
curando le ferite lasciate dai dolori.
Niente può cancellare il ricordo del cammino percorso.

RUBIN BLADES

 

Monografia n.85-2003/2


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