LE SCOPERTE “CASUALI” DELL’ASTRONOMIA
di Claudio Zellermayer

 

La storia delle scoperte scientifiche è ricchissima di aneddoti sulla casualità di tali scoperte. Spessissimo le scienze hanno brancolato nel buio dei misteri, rivelando luci in modo totalmente episodico. Scienziati di certe discipline facevano scoperte in altri campi estranei ai loro studi.
Anche l’astronomia è stata colpita, a fin di bene, da simili casualità. In questa occasione ne raccontiamo quattro.

 

La velocità della luce è “finita”

Il nostro primo caso di scoperta casuale degno di rilevanza lo possiamo datare verso la fine del ‘600 ed il protagonista è l’astronomo danese Ole Roemer.

In quel periodo uno dei problemi pratici di cui si occupava l’astronomia era la determinazione della longitudine in mare. Per secoli il problema di tale determinazione aveva assillato prima i naviganti e poi gli astronomi. A differenza della latitudine, facilmente ricavabile dall’altezza della stella polare, per la longitudine è fondamentale un orologio ed un qualche riferimento astronomico.

Già Galileo si era preoccupato del problema ed aveva preso in considerazione come fenomeno astronomico le eclissi dei satelliti di Giove, da lui scoperti nel 1610. Roemer aveva ripreso in mano i lavori di Galileo, sempre per lo stesso motivo, iniziando un’analisi dei dati proprio sui tempi di occultazione, controllandoli coi dati attuali della sua epoca. Ancora una volta lo scopo ultimo di tutto questo sforzo era rivolto alla determinazione della longitudine in mare. Lo studio da parte di Roemer dei dati di Galileo mostrava però degli errori sistematici apparentemente inspiegabili.

Prendiamo in considerazione i corpi celesti in questione. Giove impiega circa dodici anni a compiere una rivoluzione attorno al Sole, mentre la Terra impiega solamente un anno. Di conseguenza una sola volta all’anno la Terra e Giove saranno alla minima distanza. In astronomia questa situazione viene chiamata “congiunzione”. Via via che passano i mesi la distanza tra la Terra e Giove aumenta e contemporaneamente Giove diventa sempre meno osservabile perché tende ad avvicinarsi, apparentemente, al Sole. Roemer aveva notato che i tempi di occultazione di “Io”, il più vicino dei satelliti di Giove, accumulavano dei ritardi, rispetto alle previsioni di Galileo, con l’aumentare della distanza tra la Terra e Giove, fino ad un massimo di circa 17 minuti di ritardo. In altre parole il satellite Io sbucava fuori da dietro Giove con un ritardo crescente. All’avvicinarsi della Terra a Giove il ritardo tendeva a diminuire per sparire del tutto alla successiva congiunzione Terra-Giove.

Siccome l’unico mezzo di indagine astronomica a quell’epoca conosciuto era la luce, l’astronomo Roemer giunse alla conclusione che il ritardo fosse dovuto alla velocità di propagazione delle luce. Si era sempre creduto, almeno in ambito astronomico pre-galileiano, che la velocità della luce fosse infinita. Le poche prove della sua misura portavano sempre allo stesso risultato.

Anche Galileo fece dei tentativi per la sua determinazione, ma senza successo.

Il lavoro di Roemer invece portava la prima prova concreta sia della finitezza di questa velocità, sia del suo valore numerico.

Roemer capì che il ritardo accumulato era dovuto alla propagazione della luce. Se la velocità della luce non era infinita, allora impiegava più tempo all’aumentare della distanza tra i due pianeti, determinando in tal modo il ritardo misurato. Inoltre conoscendo l’entità della maggior distanza compiuta dalla luce era possibile calcolarne la sua velocità semplicemente dividendo tale distanza per il ritardo accumulato. Le osservazioni mostravano che il maggior ritardo era accumulato quando la Terra si trovava circa dall’altra parte della sua orbita rispetto al punto di congiunzione con Giove.

In pratica la luce doveva coprire una distanza maggiore di due volte il raggio dell’orbita terrestre. Il calcolo della velocità della luce eseguito da Roemer forniva un valore di 220.000 km/sec, parecchio distante dai 299.792,458 km/sec. misurati adesso ma comunque un valore decisamente elevato rispetto alle velocità tipiche note all’epoca.

 

Bradley scopre l’aberrazione della luce

Il nostro secondo caso di casualità ci porta all’anno 1726 circa. Il protagonista è l’astronomo inglese Bradley. Erano quelli anni in cui uno dei più annosi problemi dell’astronomia consisteva nella difficoltà di misurare le distanze delle stelle.

Ora noi sappiamo che esistono vari metodi per fare ciò ed uno di questi, il più preciso è un metodo geometrico, il metodo della parallasse trigonometrica.

Il metodo della parallasse trigonometrica consiste nel misurare lo spostamento angolare che subisce una stella quando la Terra viene a trovarsi in due luoghi opposti della sua orbita. È un metodo questo molto utilizzato sulla Terra per misurare distanze di oggetti lontani e difficilmente raggiungibili, ad esempio cime di montagne. Molto semplicemente, nel caso terrestre, tracciamo al suolo una distanza misurabile facilmente e poi agli estremi del segmento tracciato poniamo due mirini. Posizioniamo uno strumento per misurare gli angoli su uno dei due estremi del segmento e misuriamo l’angolo che ha come vertice il nostro goniometro e come estremi la cima della montagna e l’altro estremo del nostro segmento. In modo totalmente analogo spostiamo il goniometro sull’altro estremo ed ancora una volta misuriamo l’angolo tra il precedente estremo e la montagna. In questo modo abbiamo un triangolo che ha come vertici la montagna e le due estremità del segmento da noi tracciato. Di questo triangolo sono noti gli angoli interni ed uno dei suoi cateti (quello tracciato da noi). La trigonometria ci permette di calcolare semplicemente gli elementi mancanti del triangolo. Applichiamo adesso il nostro metodo per determinate la distanza delle stelle. Prendiamo come equivalente del nostro segmento tracciato al suolo adesso la doppia distanza Terra-Sole: 300.000.000 di chilometri circa. Misuriamo l’angolo che ha come vertice la Terra e come estremi il Sole e la stella di cui si vuole la distanza. Poi aspettiamo sei mesi e rimisuriamo l’angolo. Nel frattempo la Terra avrà compiuto mezza orbita e la stella deve trovarsi in cielo in una direzione diversa da quella precedente. Tale spostamento angolare della stella è chiamato parallasse.

Tutto ciò era già stato intuito dagli astronomi del XVI secolo, in particolare da Copernico e successivamente da Galileo Galilei.

Il problema è che la parallasse delle stelle è un angolo piccolissimo, in genere inferiore al secondo d’arco cioè 1/3600 di grado quindi totalmente impercettibile ad occhio nudo e non misurabile neanche dagli strumenti di Tycho Brahe, i più precisi del tempo. I detrattori della teoria copernicana utilizzavano proprio questa impercettibilità come prova del geocentrismo.

Galileo invece intuì che il problema era proprio l’esigua dimensione dell’angolo. Nel momento in cui l’astronomia ufficiale, da Galileo in avanti, accetta il modello copernicano, migliorato da Keplero ed in parallelo vengono costruiti telescopi sempre più precisi e potenti, ecco che si riapre la “caccia” alla misura della parallasse delle stelle e conseguentemente alla distanze delle medesime da noi.

Bradley, come detto prima, verso il 1726 si occupava di questo tuttavia le sue misure erano tutte affette da uno stesso errore pari a circa 20" d’arco. Naturalmente questo angolo non era la parallasse della stella (troppo grande) ma Bradley aveva scoperto il fenomeno dell’aberrazione della luce.

Ancora una volta un esempio “terrestre” può aiutare a visualizzare il problema.

In una giornata di pioggia se stiamo fermi sotto l’acqua (con l’ombrello, naturalmente), in assenza di vento la pioggia la vediamo cadere verticalmente. Tuttavia se ci mettiamo in moto i nostri sensi ci dicono che la pioggia inizia a cadere obliquamente, e maggiore è la nostra velocità, maggiore è l’obliquità della pioggia. Il risultato del nostro esperimento è che ci bagniamo maggiormente quanto più veloce ci si muova. Come mai capita questo?

Il motivo è che si sommano in questo caso due velocità: quella della pioggia in verticale e la nostra in orizzontale. Tale somma dà come risultato una velocità obliqua della pioggia.

Trasportando il nostro esempio all’astronomia abbiamo ancora una volta due velocità che si sommano: quella della luce della stella che noi vediamo e quella della Terra che compie il suo moto orbitale attorno al Sole. Ancora una volta sommando le due velocità si ha l’impressione che la stella che osserviamo si trovi in una posizione diversa da quella che ci aspettiamo. Misurando lo spostamento apparente della stella si ottiene un angolo di 20’’ d’arco, quello proprio trovato da Bradley.

Tale scoperta ha poi un risvolto molto importante.

L’angolo misurato è dato dal rapporto tra la velocità orbitale della Terra e quella della luce. In questo modo qui è possibile calcolare la velocità orbitale della Terra attorno al Sole ottenendo il valore di 30 km/sec.

Il fenomeno dell’aberrazione della luce e la sua spiegazione, dovute proprio a Bradley sono la prima prova concreta del moto della Terra attorno al Sole: giusto un secolo dopo l’abiura di Galileo.

Conoscendo la velocità orbitale diventa semplice calcolare la distanza media tra la Terra ed il Sole: in prima approssimazione risulta 150.000.000 di chilometri, il valore a noi noto.

 

Hubble scopre l’espansione dell’Universo

Il terzo episodio delle nostre “casualità” ci porta all’inizio del nostro secolo e precisamente negli anni ‘20. L’astronomia extragalattica come noi ora la conosciamo ha radici molto recenti.

Nel secolo scorso la conoscenza dell’universo si limitava alla Via Lattea. I telescopi migliori erano in grado di distinguere, oltre a stelle e pianeti, anche degli oggetti nebulari che presentavano al loro interno, qualche volta, delle stelle. Tuttavia tutti gli oggetti osservati venivano situati all’interno della nostra galassia che rappresentava tutto l’universo.

All’inizio di questo secolo due diverse fazioni di astronomi innescarono una disputa sulla natura degli oggetti nebulari e sulla loro posizione.

La disputa rimase irrisolta fino al momento in cui furono costruiti dei telescopi in grado di vedere il contenuto delle nebulose osservate.

A quel punto diventava evidente che tali nebulose potevano essere classificate in due categorie ben distinte: le nebulose che rimanevano tali e quelle che presentavano al loro interno un enorme numero di stelle. In pratica la nebulosità di tali oggetti era dovuto alla distanza che rendeva la luce delle stelle al loro interno diffusa anzichè puntiforme. Risolto questo primo problema ne sorgeva immediatamente un altro: misurare la distanza di questi ammassi stellari per capire se si trovavano all’interno o all’esterno della Via Lattea.
Tutto ciò ci porta al problema della misurazione delle distanze astronomiche.

Osservando la natura delle stelle si è scoperto che c'è una categoria di esse che hanno la caratteristica di cambiare la loro luminosità in modo regolare e per questo vengono chiamate “stelle variabili”.

Misurando le distanze di tali stelle, coi metodi geometrici precisi, si è verificato che queste stelle hanno tutte grosso modo la stessa luminosità assoluta quando raggiungono il loro massimo di luce. Il modo in cui la luminosità assoluta è legata al periodo della variabilità è una legge empirica cioè una legge ricavata da dati statistici per cui non molto precisi.

Con questo metodo è possibile aumentare il raggio delle nostre distanze, possiamo cioè misurare distanze di stelle nell'ambito della Via Lattea: le variabili di questo tipo, chiamate “Cefeidi” sono così splendenti da essere viste in tutta la Galassia ed anche in altre galassie. Questo è proprio ciò di cui si occupò inizialmente l’astronomo americano Edwin Hubble.

Verso la metà degli anni ‘20 fu terminato l’osservatorio di Mount Wilson dotato di un telescopio a specchio del diametro di 2,5 metri, il più grande telescopio dell’epoca. Con tale strumento Hubble era capace di “vedere” delle cefeidi anche negli ammassi stellari di cui se ne voleva valutare le distanze. Con grande sorpresa di Hubble e dei suoi collaboratori le distanze misurate col metodo delle cefeidi erano enormi rispetto all’ambito galattico.

Questo poneva fine alla disputa sulla locazione di questi oggetti: stavano tutti fuori dalla Via Lattea. In pratica era la scoperta di un universo extragalattico in cui la nostra Galassia è solo una fra miliardi di oggetti a lei simili.

Dopo questa prima scoperta che però con l’espansione dell’universo non ha niente a che vedere, Hubble volle iniziare uno studio accurato delle galassie per determinare una loro classificazione morfologica ed un eventuale tracciato evolutivo.
A tal fine Hubble determinò lo spettro delle galassie studiate. Lo spettro della luce, cioè la sua scomposizione nei colori dell’iride, permette di indagare sulla natura della materia che la luce attraversa, in particolare dei gas.

Tramite lo spettro della luce delle stelle è possibile scoprire la composizione chimica delle atmosfere stellari, la percentuale degli elementi presenti e soprattutto, tramite l’effetto Doppler, la velocità delle stelle, sia in avvicinamento che in allontanamento.

Allo stesso modo si può operare con la luce proveniente dalle galassie. Hubble analizzando gli spettri delle galassie notò che la loro luce presentava un forte spostamento verso le lunghezze d’onda del rosso o “redshift”.
Detto in altre parole l’effetto Doppler prima citato mostrava che le galassie si stavano tutte allontanando dall’osservatore, cioè dalla Terra e la loro velocità di allontanamento aumentava con la distanza secondo una legge di proporzionalità:

V = Ho . d

dove V è la velocità di allontanamento della galassia, d è la sua distanza e Ho una costante di proporzionalità che prende il nome di “costante di Hubble”.

Il fatto che le galassie si allontanassero tutte dalla Terra non deve trarre in inganno: non è un retaggio di geocentrismo, ma una conseguenza della cosmologia che in questo ambito non prendiamo in considerazione. Il problema invece era legato al perché di questa espansione, un perché che successivamente le teorie cosmolgiche spiegheranno bene.

Negli anni successivi alla scoperta dell’espansione dell’universo il valore della costante di Hubble si è modificato. Questo può sembrare una contraddizione se chiamiamo costante quel valore.

Il punto è che per determinare il valore di Ho occorre conoscere esattamente sia la velocità di allontanamento delle galassie che le loro distanze e quest’ultimo dato purtroppo è molto difficile da ottenere con la precisione richiesta dalla cosmologia.

 

Penzias e Wilson e la conferma della teoria del Big Bang

Robert W. Wilson e Arno A. Penzias
Robert W. Wilson e Arno A. Penzias davanti
l'antenna dei laboratori della Bell Telephone a Holmdel,
New Jersey con cui scoprirono la radiazione di fondo

L’ultimo dei nostri incontri con la casualità delle scoperte astronomiche ci porta verso la metà degli anni ‘60, negli Stati Uniti dove due ingegneri di una compagnia telefonica statunitense, Arno Penzias e Robert Wilson erano alle prese con una nuova antenna per comunicare con un satellite per telecomunicazioni.

Il problema che questi due signori dovevano risolvere era di calibrare l’antenna per eliminare i segnali di disturbo che impedivano una buona ricezione col satellite. In particolare c’era un segnale a livello di onde radio centimetriche che non voleva abbandonare l’antenna.

La prima cosa che i nostri protagonisti fecero fu di controllare l’interno dell’antenna, che aveva la forma di un gigantesco orecchio. Dentro all’antenna una coppia di piccioni aveva eletto quel luogo come dimora, ed anche come gabinetto impiastricciando il tutto col loro guano. I piccioni vengono scacciati due volte e Penzias e Wilson ritestano l’antenna ma il disturbo non sparisce, anzi sembra provenire da tutte le direzioni compreso lo spazio.

A quel punto entrano in scena gli astrofisici dell’università di Princeton situata non molto lontano da dove era sistemata l’antenna di Penzias e Wilson.

Proprio in quel periodo gli astrofisici di Princeton, in particolar modo Peebles e Dicke erano alle prese con certi calcoli che riguardavano delle previsioni della teoria del Big Bang.

La teoria del Big Bang a quel tempo era una delle due teorie più in voga per spiegare l’origine dell’universo e l’espansione osservata un trentennio prima da Hubble.
Tuttavia la teoria del Big Bang languiva perché non c’erano delle conferme sperimentali che la supportassero. La fisica nucleare aveva fornito ai promotori del Big Bang il bagaglio teorico che stava alla base di quest’idea, tuttavia le prove/previsioni erano ancora di là da arrivare.
Senza entrare troppo nei meriti del Big Bang, una teoria tra le più note in cosmologia, oltre alla formazione degli elementi leggeri (idrogeno, elio e frazioni di deuterio e litio), ai primordi dell’universo tale teoria prevedeva che con l’espansione dell’universo la materia e la radiazione dopo un certo tempo non fossero più intimamente connesse.

In astrofisica questa situazione viene definita come “disaccoppiamento tra materia e radiazione”. In pratica fino a che la materia e la radiazione erano indistinguibili l’una dall’altra si manteneva un equilibrio termodinamico nel fluido in espansione che era l’universo primordiale.
Quando tale equilibrio si spezzava la storia dell’universo subiva un brusco cambiamento: la materia e la radiazione, disaccoppiate l’una dall’altra, seguivano ognuna una strada diversa.
La materia si sarebbe aggregata in stelle, galassie, nebulose e tutti gli altri oggetti che compongono l’universo, mentre la radiazione si sarebbe via via raffreddata fino a raggiungere ai nostri giorni una temperatura di circa 3K cioè -270°C, temperatura uniforme in tutto l’universo. Tale temperatura bassissima corrisponde ad una radiazione di fondo rivelabile nelle microonde.

A Princeton i fisici elaboravano questi calcoli e lì vicino un’antenna radio stava captando una radiazione esattamente della lunghezza d’onda prevista dalla teoria del Big Bang.

Casualmente la prima vera prova del Big Bang era stata scoperta.

Penzias e Wilson nel 1978 riceveranno il premio Nobel per la fisica per questa scoperta.

 

Monografia n.41-1999/9


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