DALL'IDROGENO AI PIANETI
IPOTESI SULLA FORMAZIONE DEL SISTEMA SOLARE
di Oriano Spazzoli


Annotazioni non organiche sulla Terra e sulla Luna
Leonardo da Vinci - Codice Leicester, foglio 1 recto

 

«In principio Dio creò il Cielo e la Terra. La Terra era una massa senza forma e vuota; le tenebre ricoprivano l'abisso e sulle acque aleggiava lo spirito di Dio. Iddio disse: 'Sia la luce', e la luce fu. Vide Iddio che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre; e chiamò la luce giorno e le tenebre notte» (Genesi 1-5).

Sia che si considerasse necessario l'intervento di un Creatore, sia che si chiamasse in causa un organizzatore in grado di infondere alla materia confusa o dispersa un ordine o un'anima, l'origine della Terra per gli antichi coincideva con l'origine dell'intero universo. Sono occorsi millenni di storia perché l'uomo, liberato il proprio pensiero dalle catene del geocentrismo (al 1541 risale la pubblicazione del “De rivolutionibus Orbium Caelestium” di Niccolò Copernico), grazie al progresso delle tecniche di osservazione e delle metodologie di indagine astronomica riconoscesse nel Sole non un fenomeno di assoluta eccezionalità nell'universo ma una stella come tante, una minuscola porzione, uno dei cento miliardi di “atomi” che formano quel granello di polvere sospeso nel cosmo che è la nostra galassia rispetto alle dimensioni del cosmo stesso.

A poco a poco dunque, il problema della “creazione” dell'uomo, della terra e dell'intero sistema solare, con l'espandersi degli orizzonti della ricerca astronomica, finì con il perdere il carattere di vera e propria Cosmogonia (l'attenzione dei cosmologi si è focalizzata nell'ultimo secolo sui problemi relativi l'origine delle galassie e della loro distribuzione), ed è divenuto una delle tante questioni astrofisiche da analizzare alla luce di ipotesi e di sviluppi evolutivi compatibili con le leggi della meccanica della termodinamica e dell'elettromagnatismo. Con ciò la scienza si liberò anche della necessità di una “causa finale”, che la tradizione religiosa aveva da sempre attribuito alla storia del mondo ed identificato con il “bene degli uomini” (lo stesso Isaac Newton affermò per questo che le stelle fisse erano state collocate da Dio infinitamente lontane le une dalle altre per evitare che cadessero l'una sull'altra a causa della reciproca attrazione gravitazionale, cosa che avrebbe prodotto la distruzione del mondo).

 

La storia: ipotesi “catastrofica” e ipotesi “evoluzionistica”.

Occorre precisare che la diversità delle opinioni sulla formazione del sistema solare fornì argomento di dispute filosofico-religiose tra fautori delle due principali ipotesi che si sono delineate ed evolute negli ultimi secoli: l'ipotesi “catastrofica”, che attribuiva la formazione del Sole ad un cataclisma naturale che avrebbe coinvolto il Sole all'inizio della sua vita (l'urto con un altro astro), e l'ipotesi “evoluzionistica”, così definita perché attribuisce la nascita del Sole e dei pianeti alla contrazione gravitazionale di una nube primordiale di gas e polvere cosmica.

Mentre la prima teoria di fatto considerava una rarità la possibilità della formazione di un sistema solare e, in esso, di un pianeta come la Terra, attribuendola ad un evento del tutto eccezionale, la seconda, chiamando in causa un processo alquanto “comune” nell'universo (quale la possibilità di un addensamento locale di materia e di una conseguente instabilità gravitazionale) eliminava gli ultimi residui di antropocentrismo dalla visione cosmologica dell'uomo. Le due teorie diedero vita ad una lunga diatriba nella quale le loro formulazioni successive prevalsero alternativamente l'una sull'altra, ciascuna introducendo nuovi elementi di conoscenza e nuove problematiche, senza però trovare risposte adeguate a queste ultime.

Citiamo, per iniziare, la teoria di G. Buffon (1745), che ispirato dai recenti studi sulle orbite fortemente ellittiche delle comete nonché dalla prima analisi del fenomeno della geotermia (Buffon assunse che il calore interno alla Terra fosse superiore a quello ricevuto dal Sole), ipotizzò una espulsione di materia dal Sole che avrebbe seguito l'esplosione provocata dalla caduta di una cometa sul Sole; dalla materia espulsa, poi raffreddatasi, si sarebbero condensati i pianeti (si comprese ben presto che le ridotte dimensioni delle comete non avrebbero potuto produrre energia sufficiente a tale scopo).

La prima ipotesi evoluzionistica viene attribuita sia al filosofo Immanuel Kant che al grande fisico-matematico P. S. Laplace, il quale diede solide basi fisiche all'intuizione della “nube primordiale” di Kant. Nella formulazione laplaciana della teoria la contrazione della nebulosa, accompagnata da un aumento della velocità di rotazione, dà vita ad un nucleo (da cui si forma il Sole) e ad un disco prodotto dall'espulsione dalla regione equatoriale, della materia spinta verso l'esterno dalla forza centrifuga. Il disco è formato da una serie di anelli simili a quelli di Saturno i quali a loro volta prima si frammentano in parti che successivamente aggregandosi producono i pianeti.

Tale ipotesi spiegava perché i pianeti avessero tutti lo stesso verso di rotazione (affermando poi che la velocità di rotazione del disco crescesse con la distanza dal centro, Laplace dedusse che per questo motivo ai pianeti sarebbe stata impressa una rotazione nello stesso verso, fatto smentito da più recenti osservazioni che mostrano come Venere e Urano abbiano una rotazione retrograda).

La principale argomentazione contraria alla teoria nebulare di Kant-Laplace fu il confronto tra il momento angolare solare e quello planetario.

Il momento angolare è una grandezza fisica che serve a descrivere dinamicamente la rotazione di un corpo e la sua misura è data dal prodotto della massa del corpo, della sua distanza dall'asse di rotazione e della sua velocità di rotazione; poiché il momento angolare di un sistema soggetto alla sola forza di gravità resta costante nel tempo, la contrazione della nebulosa originaria (diminuzione del raggio) avrebbe dovuto essere accompagnata da un aumento della velocità di rotazione; in tal modo il Sole avrebbe dovuto avere una velocità di rotazione molto superiore a quella attuale (l'osservazione delle macchie solari aveva permesso di determinare che il Sole ha un periodo di rotazione di 25 giorni e 3/10) ed un momento angolare superiore a quello dei pianeti (condensatisi quando la nebulosa aveva le dimensioni dei loro raggi orbitali) mentre nella realtà esso rappresenta soltanto il 2% di quello totale del sistema solare, mentre il 98% compete ai pianeti (nonostante la massa totale dei pianeti sia soltanto qualche millesimo della massa del Sole).

Questi calcoli eseguiti da Babinet e pubblicati nel 1861, parvero far pendere la bilancia della ragione dalla parte dei catastrofisti, i quali riproposero nuove soluzioni in grado di spiegare la “strana” ripartizione del momento angolare nel sistema solare: in particolare il fisico J. H. Jeans nel 1917 pubblicò una sua ipotesi secondo la quale il sistema dei pianeti si era formato in seguito alla fuoriuscita di materia dal Sole, strappata ad esso da forze di marea causate dalla collisione con una stella vicina (o dal passaggio di una stella vicino al Sole).

Tuttavia questa ipotesi risultò insoddisfacente perché per giustificare una rotazione così rapida dei pianeti sarebbe occorsa una velocità relativa al Sole, per la stella “perturbatrice”, molto superiore alle velocità relative medie misurate per le stelle della nostra galassia (da 10 a 100 km/s). Si svilupparono anche le cosiddette “teorie della cattura”, che consideravano cioè la materia del sistema Solare “catturata” dal Sole quando esso fosse passato vicino ad un'altra stella o transitato all'interno di una nube di gas e polvere, e che sono state respinte in quanto le analogie riscontrate tra le abbondanze di isotopi (in particolare di deuterio) sui pianeti ed in particolare sulla Terra sono uguali a quelle riscontrate nelle regioni più esterne del Sole; tale dato sperimentale concorda con l'ipotesi di una origine comune del Sole e dei pianeti.

Nonostante ciò queste teorie, in particolare nelle loro formulazioni di H. Alfven (premio Nobel per la Fisica nel 1970 per i suoi studi sul comportamento della materia ionizzata nei campi magnetici) e di H. Urey, fornì indicazioni più complete sull'influenza del campo magnetico sui processi di aggregazione dei pianeti nonché sulle loro modalità.

 

Ritorno all'ipotesi nebulare e scenario attuale.

Così anche in seguito al progresso degli studi sull'evoluzione e sulla struttura delle stelle, si ritorna all'ipotesi della nebulosa di Kant-Laplace, anche se con la necessità di una sua revisione tesa a risolvere il problema del momento angolare.

Fred Hoyle in particolare, ricorrendo alle conclusioni di Alfven riguardo al comportamento del plasma (in Fisica con il termine “plasma” si intende materia ionizzata la cui carica netta è nulla) in un campo magnetico, afferma che l'origine del sistema solare si deve ad un processo di contrazione della nebulosa con aumento della velocità di rotazione e conseguente appiattimento della sua forma; dalla regione equatoriale del disco ottenuto viene espulsa della materia che forma a sua volta un anello in rotazione intorno al protosole. A questo punto l'azione del campo magnetico diviene importante; infatti, poiché il plasma della nebulosa rimane “congelato” lungo le sue linee di forza, queste si comportano come corde elastiche avvolgendosi a spirale intorno al nucleo con l'effetto di rallentarne la rotazione e di mettere invece in movimento la materia dell'anello esterno.

L'ipotesi di Hoyle è fisicamente plausibile ma viene a cadere quando i calcoli mostrano che il campo magnetico necessario per dare vita a questi processi è di molto superiore a quello compatibile con il campo attuale del sistema solare, in base ai modelli evolutivi della nebulosa primordiale.

Il quadro che qui riportiamo per concludere è quello che oggi viene considerato, se non certo, almeno il più probabile ed è fornito dalla teoria elaborata da V.S. Safronov (con la collaborazione dell'istituto di Fisica della Terra di Mosca) alla fine degli anni sessanta; lo sintetizziamo nei seguenti punti:

Questo complesso meccanismo spiega tra l'altro il fatto che i pianeti gassosi abbiano massa maggiore rispetto a quelli rocciosi; infatti la minor temperatura dovuta alla minore intensità della radiazione stellare alle distanze di Giove e Saturno dal Sole, e quindi la minor energia cinetica delle particelle in fase di sedimentazione determina una agglomerazione più lenta dei planetesimi (gli urti tra le particelle sono meno frequenti) e una minore resistenza al processo di condensazione (è minore l'agitazione termica delle particelle). Ciò determina per questi pianeti la formazione di un nucleo solido massiccio (2-3 masse solari) composto di roccia e gas ghiacciati che ha attirato su di sé la quasi totalità dell'idrogeno e dell'elio del sistema solare.

Per questo motivo Urano e Nettuno, che si sono agglomerati ancora più lentamente (perché ancora più lontani dal Sole) e la cui velocità di rivoluzione è minore di quella dei pianeti più interni (come segue dalla III legge di Keplero), hanno catturato una quantità di idrogeno residua molto minore rispetto a Giove e Saturno e le loro atmosfere sono ricche di gas più pesanti come ammoniaca ed idrocarburi.

Probabilmente la forte perturbazione gravitazionale della grande quantità di materia che si è accumulata su Giove ha determinato la mancata agglomerazione di un embrione nonché la mancata formazione di un pianeta nella fascia asteroidale.

Una prova ulteriore dell'accrescimento dei pianeti è data dalla presenza in Mercurio e nei corpi del sistema solare sprovvisti di atmosfera, di una grande quantità di crateri da impatto che probabilmente costituiscono le “cicatrici” lasciate dagli urti con i granuli di maggiori dimensioni coinvolti nel processo di accrescimento.

Nel 1970 poi S. H. Dole realizzò una simulazione al calcolatore di un processo di formazione di sistema solare ipotizzando che una nebulosa primordiale si fosse evoluta in una stella centrale di massa uguale a quella del Sole circondata da un disco di gas e polvere in rotazione intorno ad essa, di massa uguale a quella dei pianeti del sistema solare e di sezione crescente al crescere della distanza dal centro del sistema (la struttura particolare del disco di gas e polvere viene definita “esocono”); assumendo queste ultime come condizioni iniziali egli ottenne la riproduzione di un processo evolutivo analogo a quello previsto in base alla teoria dei “planetesimi”.

Tale processo conduceva ad un certo numero di possibili soluzioni finali; una di queste fu appunto quella compatibile con l'attuale sistema solare.

Oggi lo stesso tipo di procedimento viene adottato per spiegare anche la formazione di alcuni satelliti, mentre altri (come Phobos e Deimos di Marte) si ritiene siano asteroidi catturati dal capo gravitazionale del pianeta.

 

Conclusione

Siamo così giunti ad un quadro che, anche se alcuni suoi elementi sono ancora oggetto di discussione (come gli aspetti microfisici dei processi di aggregazione tra granuli, gli aspetti dinamici dei processi da impatto o i meccanismi di trasferimento del momento angolare dal protosole al sistema planetario) si può considerare alquanto dettagliato, soprattutto se si pensa al fatto che gli elementi a sostegno di questa ricerca sono le conoscenze (ancora incomplete) dello stato attuale del nostro sistema solare nonché dei sistemi planetari di cui si è potuta stabilire l'esistenza.

Certo questa “paleontologia dello spazio” (come la ricostruzione del corpo di un animale preistorico da alcuni frammenti di mandibola) si presta sempre, per sua natura, a discussioni e a critiche, ma il rigore metodologico e la solidità dei principi fisici che la sostengono riduce notevolmente il suo margine di indeterminazione.

Di certo la capacità dell'umano ingegno di ricostruire un percorso evolutivo da pochi elementi osservabili è una dimostrazione di come il processo induttivo che porta alla costruzione di una teoria scientifica non sia un puro concatenamento sequenziale di affermazioni fondate sull'osservazione di una realtà perfettamente nota, ma in esso vi sia spazio per la fantasia, per l'intuizione ed anche per quel desiderio profondo e incontrollabile di spiegare e conoscere che ha portato l'uomo da sempre a dare un volto all'ignoto. Essa è forse testimone di quell'“impazienza” cui pensava Henry Poincarè quando scrisse:

«Noi forse dovremmo attendere, prima di cercare una soluzione, di averne raccolto pazientemente gli elementi, e di avere acquisito in tal modo qualche speranza seria di trovarla; ma se fossimo così ragionevoli, se fossimo curiosi senza impazienza, non avremmo forse mai creato la scienza».

 

Bibliografia:

 

Monografia n.8 - 1997/3


Leonardo da Vinci - Codice Leicester, foglio 1 recto

Annotazioni non organiche sulla Terra e sulla Luna, con particolare riferimento alla loro dimensione ed al rapporto col Sole.

La grande figura che scende verticalmente verso il centro della pagina rappresenta il Sole sopra la Terra, la cui sezione illuminata (di fronte al Sole) è marcata con le lettere da “a” a “n”. Leonardo scrive che, contrariamente alle normali regole di prospettive, le parti della Terra che si trovano più lontano dal Sole, ne vedono di meno. Ciò significa che una persona che si trova sulla parte di circonferenza della Terra “fm” vedrà soltanto le zone “an” e “rm” del Sole.

A sinistra, nel centro della pagina, vi è un testo intitolato «L'avversario oppone»: L'immaginario avversario di Leonardo riconosce che la Luna non ha luce propria, ma si rifiuta di credere che vi siano acque sulla Luna. Sostiene che, in ogni caso, si tratterebbe di acque non agitate dalle onde, per mancanza di vento. Leonardo, al contrario, ritiene che la luce lunare derivi dal riflesso del della luce solare (e dalla luce riflessa del Sole sulla Terra) sulle onde delle acque della Luna. Illustrano questa tesi i due disegni orizzontali che mostrano il Sole e la Luna, con linee per indicare la visione di un occhio umano. Gli strani lobi sulla superficie della Luna, nella figura inferiore, sono indubbiamente una rappresentazione approssimativa delle onde.

In alto a destra è aggiunta un'annotazione: «Ricordo come io ho in prima a dimostrare la distanzia del sole dalla terra». Un riferimento incompleto al metodo per determinare questa distanza si trova sul verso dello studio veneziano per il Bambin Gesù nella Santa Anna al Louvre (circa 1510 - 1511). Cfr. Pedretti, Richter “Commentary”, nota al paragrafo 884.

 


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